INTRODUZIONE GENERALE - I VOL.
- Scritto da uguerra
- Visite: 10601
INTRODUZIONE GENERALE
Gratius ex ipso fonte bibuntur aquae
Più gradevoli sono le acque se bevute alla sorgente
(Ovidio, Ex Ponto 3, 5)
Un mondo tutto da scoprire
Scriveva l ’ Orbaan più di cento anni fa: “Non si potrà mai pensare a pubblicare integralmente una serie di “avvisi” neanche per un solo pontificato, sia pure breve come quello di Sisto V. I soli “avvisi di Roma” tolti dalla collezione Urbinate, del periodo 1585-1590, verrebbero a formare un grosso volume stampato. La mole supererebbe di molto il valore” [1]. Anche il D ’ Onofrio ne era convinto, visto che “man mano che si procede nel ’ 600 le raccolte degli Avvisi diventano letteralmente sterminate, la loro pubblicazione diventerebbe un grosso problema, da tutti i punti di vista” [2].
Probabilmente è stato il mio forte interesse alla figura di Sisto V a sfidare l ’ Orbaan, grande studioso della Roma cinque-seicentesca, e a cimentarmi in quest ’ operazione ardita, lunghissima e per nulla facile, anche perché non sono del tutto d ’ accordo che “la mole supererebbe di molto il valore”, dal momento che il valore degli “avvisi” è innegabile e la loro conoscenza è senza dubbio fonte storica essenziale per la quantità di informazioni di prima mano che essi forniscono. È vero che a volte ci troviamo di fronte ad una massa di informazioni di semplice vita quotidiana, notizie minute che non possono competere con le paludate relazioni diplomatiche che gli ambasciatori inviavano ai rispettivi Stati; ma questa storia cosiddetta maggiore non è altro che la facciata sontuosa di quella storia feriale e sotterranea, ingiustamente chiamata minore.
Inoltre è anche vero che gli avvisi (soprattutto di Roma) sono stati largamente utilizzati da numerosi studiosi nel corso del Novecento. Penso soprattutto a Ludwig von Pastor e alla sua monumentale opera in sedici volumi, di fine 800, Geschichte der Päpste seit dem Ausgang des Mittelalters (Storia dei Papi dalla fine dell ’ età medioevale); ma è anche vero che la ricchezza delle informazioni fornite dagli avvisi è ancora ben lontana dall ’ essere stata approfondita e sfruttata adeguatamente.
In occasione del quinto centenario della nascita di papa Sisto V (1521-2021) mi è sembrato opportuno far conoscere e pubblicare l ’ intero corpo degli avvisi prodotti durante i suoi cinque anni del suo pontificato, cioè dall ’ aprile 1585 all ’ agosto 1590.
Semplificando al massimo si potrebbe tentare questa definizione degli avvisi: “Si tratta di brevi relazioni sulle novità avvenute in un particolare luogo, raccolte da persone che spesso elaboravano su commissione di agenti e che poi inviavano alle corti o alle personalità che desideravano essere informate sui fatti avvenuti nei maggiori centri europei” [3]. Quindi siamo in presenza di notizie di fatti accaduti In Italia o in Europa, raccolte con intervalli regolari e trascritte da anonime persone per guadagno, e comunque per mestiere. Non entrano quindi fra gli avvisi le raccolte di lettere scritte da un autore preciso per un destinatario preciso, come ad esempio i dispacci e le relazioni scritte di ambasciatori o nunzi.
Si può quindi dire che gli avvisi (prima manoscritti e poi stampati) possono essere considerati come le prime espressioni del giornalismo, per usare tale termine tipico dell ’ età moderna. Infatti “se all ’ avviso a stampa come genere letterario va assegnato un nome, questo è pur sempre il giornalismo; però non inteso in senso funzionale o strumentale, ma come vocazione e forma mentale. E il giornalismo così inteso può ben accogliere nel suo seno, oltre gli avvisi stampati, anche quelli manoscritti dei menanti” [4].
L ’ origine degli avvisi affonda nel bisogno di conoscenza e di successiva divulgazione, in un momento in cui negli Stati italiani ed europei non vi era un esercizio pienamente libero della stampa. Era infatti il sovrano, il principe, il duca, il papa a dare l ’ imprimatur ad ogni stampa, per avere il modo di ben controllare questo mezzo di estrema importanza. Ma la notizia, con il suo valore di divulgazione e di commento, difficilmente può essere ingabbiata dal potere, perché è come il vento, inarrestabile e incontenibile per sua natura. Fu proprio per l ’ ancestrale voglia di comunicare e cercare di scavalcare il potere autocratico che sorse il bisogno di scrivere i primi fogli manoscritti, non firmati e con nessuna pretesa letteraria, composti da alcuni fogli che “avvisavano” e davano informazioni sulla propria città e, per quanto si poteva, su ogni parte del mondo, facendo uso delle notizie che attraverso i più vari canali giungevano soprattutto a Roma o a Venezia, due poli fondamentali d ’ Europa nel Medioevo: la capitale del mondo cristiano l ’ una e la capitale del mondo commerciale l ’ altra. In questo modo - affermano gli storici - gli avvisi hanno tenuto a battesimo quello che sarà il giornalismo che tutti conosciamo. Infatti gli avvisi sono finestre aperte spalancate sul mondo politico e sul vivere quotidiano e “i loro contenuti, magari alterati quando non del tutto stravolti, invariabilmente finivano in piazza... Almeno nei centri più importanti le notizie, politiche, militari o di qualsiasi altro genere, erano destinate alla divulgazione” [5].
La bibliografia riguardante gli avvisi, o comunque il mondo dell ’ informazione cinque-seicentesca, si è arricchita a cominciare dagli inizi del Novecento, dopo un silenzio durato fin troppo. E si cominciò a scoprire l’importanza culturale e storica degli avvisi, finora poco conosciuti e forse poco considerati anche dagli stessi che li avevano scritti. Scrive il Bongi, il primo studioso che ha cominciato ad interessarsi di questo settore con un saggio lucidissimo e fondamentale: “Coloro che vissero ne ’ due secoli passati erano troppo lontani dal prevedere la futura importanza delle gazzette, perché potesse venir loro in mente di tramandarci notizie sulle medesime” [6].
Oggi possiamo usufruire di una ricca e abbondante bibliografia in merito, e sempre più specialistica [7].
Dove sono depositati i nostri avvisi
I sei volumi manoscritti che ho preso in esame e trascritto sono conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana (BAV), nelle collezioni dei manoscritti, e vanno sotto la dicitura di “Urbinati Latini” [8].
Essi sono siglati come:
- “Urbinate Latino 1053” riguardante l ’ anno 1585;
- “Urbinate Latino 1054”, per l ’ intero anno 1586;
- “Urbinate Latino 1055”, per l ’ intero anno 1587;
- “Urbinate Latino 1056”, per l ’ intero anno 1588;
- “Urbinate Latino 1057”, per l ’ intero anno 1589;
- “Urbinate Latino 1058”, riguardante l ’ anno 1590.
Ognuno di questi sei volumi sviluppa in media 1100 carte, per un totale di 6966, scritte in recto e verso. Sono state trascritte 802 carte del volume 1053; tutte le 1214 del volume 1054; tutte le 1128 del volume 1055; tutte le 1326 del volume 1056; tutte le 1560 del volume 1057; 936 del 1058.
I fogli sono normalmente di due formati standard di carta: 32,5 x 23 e cm. 28 x 21,5.
Anche se gli avvisi urbinati della BAV costituiscono la raccolta più grande e più studiata di questa categoria, molti altri avvisi, in forma più o meno parziale, sono conservati in quasi tutti i più importanti archivi italiani: li troviamo infatti nella Biblioteca Nazionale di Roma, di Firenze, di Napoli, di Lucca, di Modena, di Mantova, alla Biblioteca Marciana di Venezia, a Milano, a Torino... cioè dove si trovavano le corti di quell ’ Italia frammentata del Cinque-Seicento.
La raccolta urbinate è dono prezioso di una città preziosa, Urbino, una delle splendide città rinascimentali italiane. Infatti, per uno scherzo della storia, gli avvisi “urbinati” furono inviati da Roma alla corte di Urbino, per poi ritornare a Roma.
Il trasferimento a Roma di questi avvisi fu dovuto all ’ estinguersi del ducato di Urbino, per mancanza di discendenza alla morte dell ’ ultimo duca Francesco Maria II Della Rovere, avvenuta il 28 aprile 1631. Ciò causò il conseguente assorbimento del ducato allo stato pontificio [9].
I duchi di Urbino avevano intelligentemente accumulato, nel corso di quasi duecento anni, una delle più belle biblioteche che la storia europea conosca. Iniziata dal duca Federico da Montefeltro, comprendeva alla morte di costui ben 900 codici latini, greci, ebraici ed arabi, esemplari unici di grandissimo pregio. Per il famoso duca raffigurato dal bel quadro di Piero della Francesca (vedi foto a pagina XXIV dell’inserto fotografico) la biblioteca era parte integrante di un preciso progetto politico, che aveva lo scopo di affermare la sua immagine come principe rinascimentale mecenate delle lettere e arti. Molti codici vennero scritti, decorati e miniati nello scriptorium di Palazzo ducale [10]. A questa già mirabile biblioteca conservata nel palazzo di Urbino, il duca Francesco Maria II, ultimo duca e raffinato bibliofilo, affiancò una seconda biblioteca raccolta nella vicina Castelgrande-Urbania [11], comprendente più di 13.000 volumi a stampa e aggiornatissima anche dal punto di vista scientifico [12].
Con la morte del duca e il conseguente assorbimento del ducato nello Stato pontificio, i dipinti, i gioielli e l ’ archivio [13] partirono per Firenze, mentre Urbino riuscì a mantenere le due biblioteche, anzi le unificò nel palazzo ducale. Nel 1643 uno dei maggiori eruditi dell ’ epoca, il tedesco Lukas Holste [14] in occasione di un suo viaggio fece tappa ad Urbino, visitò la biblioteca, ne rimase affascinato e si fece promotore della acquisizione della stessa da parte della Biblioteca Vaticana (anche Venezia e Mantova avevano cercato di acquistarla). Quattordici anni dopo la città accolse la proposta di acquisto avanzata da papa Alessandro VIII e il Consiglio comunale votò a favore della cessione della biblioteca ducale in cambio di 10.000 scudi (buoni per alleggerire la grave crisi economica) e alcuni privilegi politici [15].
Così, nel 1657 il grande patrimonio bibliotecario urbinate (manoscritti e stampe) confluì nella Biblioteca Vaticana dopo un epico viaggio attraverso l ’ Appennino. Dal 25 ottobre al 4 dicembre di quell ’ anno, un convoglio si snodò lungo la via Flaminia, formato da 47 muli, appesantiti ciascuno di 180 chili e che trasportavano un totale di 45 grosse casse contenenti i volumi, di cui preventivamente era stato fatto un accurato inventario. Il viaggio durò 41 giorni e fu alquanto faticoso, a motivo del tempo inclemente e delle piogge. A circa 45 chilometri da Urbino, verso il paese di Cantiano, un mulo scivolò in un dirupo verso il fiume Burano e i libri della sua cassa si bagnarono. Il convoglio dovette attendere che i libri fossero asciugati per limitare i danni subiti, che per fortuna furono lievi. Il costo del viaggio ammontò a 250 scudi, ma quella preziosa biblioteca veniva a quel tempo valutata del valore di 15 mila scudi. Dieci anni dopo l ’ arrivo dei libri a Roma, nel 1667 (e ancora nel 1779), la Biblioteca vaticana avviò un accurato lavoro di inventariazione, analisi, collocazione e rilegatura dell ’ intero Fondo Urbinate, trattando la biblioteca ducale con tutta l ’ attenzione che meritava per la sua eccezionalità. Si è scritto che “il vero motivo che determinò il trasferimento della libreria ducale alla Vaticana fu certamente la chiara e precisa volontà del Pontefice. In molti documenti è esplicita questa volontà. Le voci sulla vendita della libreria furono diffuse ad arte, per cercare pretesti a che la comunità urbinate l ’ offrisse spontaneamente al papa, in cambio di qualche compenso al Comune” [16].
Nel 1667 molti volumi della preziosa biblioteca urbinate, soprattutto quelli a stampa, confluirono nella Biblioteca Alessandrina di Roma, fondata e inaugurata nel 1667 (dieci anni dopo l ’ assorbimento del ducato d ’ Urbino) per volontà dello stesso papa Alessandro VII, come biblioteca dello Studium Urbis nel Palazzo della Sapienza. [17]
Un esplicito riferimento al destinatario urbinate di questi avvisi lo troviamo spesso nell ’ ultima pagina del foglio manoscritto, dove si legge nell ’ estremo lembo sinistro, scritto in piccolo e quasi impercettibile, la parola Urb[in]o. Mi limito, a mo ’ di esempio, a segnalare i 19 casi che si trovano nel solo volume del 1589 e precisamente nelle carte 32v, 34v, 62v, 157v, 221v, 285v, 301v, 319v, 331v, 334v, 366v, 421v, 521v, 524v, 602v, 617v, 639v, 710v, 736v. In un solo caso, alla c. 419v/85 del 4 settembre 1585, si legge più distesamente, accanto alla traccia del bollo di chiusura: “Al serenissimo Duca d ’ Urbino mio Signore”.
Per tale motivo dobbiamo considerare questi avvisi “urbinati” come compilati a Roma per poi essere spediti ad Urbino dai vari “segretari” o “agenti ’ del duca presenti a Roma (come l ’ Uguccioni, il Torres, il Graziosi...). Non abbiamo invece in questi codici urbinati altri avvisi di “segretari” dello stesso duca presenti in altre corti d ’ Italia o d ’ Europa (come ad es. il Borgaruccio residente a Venezia). Si può anche aggiungere che certi avvisi sono stati compilati dalle agenzie romane appositamente per il Duca di Urbino: ne fa fede l ’ avviso del 21 dicembre 1588, un normale avviso come gli altri e con le stesse caratteristiche, ma che alla fine, parlando delle vicine feste natalizie, tradisce senza ombra di dubbio il destinatario urbinate: “Il Pontefice essortò da poi i Cardinali a communicarsi le prossime feste di Natale, che Iddio conceda felicissime a Vostra Altezza, et a tutti della sua Serenissima casa” (c. 642r/88).
Dietro i termini
Gli avvisi, intesi come fogli manoscritti con brevi notizie o informazioni riguardanti persone e fatti di una o più città e scritti di solito su un foglio doppio di quattro pagine con l ’ indicazione della città e della data, cominciarono a circolare già a metà del Cinquecento [18]. Al termine di avviso si affiancano altri termini, come “gazzetta”, “reporto”, “retorno”, “nova”, “romore”.
Il termine italiano “avviso” (o “aviso”) cominciò ad usarsi a Roma dal 1554 con notizie venute da Anversa e il termine fu esportato anche in Germania, dove dal 1609 cominciò ad apparire nel periodico tedesco “Aviso. Relation oder Zeitung” [19] .
Il termine “gazzetta” (che senza dubbio ha avuto più lunga durata nella storia della comunicazione) viene dal dialetto veneziano, dal momento che a Venezia i fogli manoscritti venivano acquistati con una moneta da due soldi che si chiamava gaxeta, italianizzato poi in gazzetta [20]. Successivamente, il termine passò a indicare qualsiasi giornale periodico (con lo stesso nome anche in altre nazioni europee) recante le notizie che meritassero di essere conosciute dagli abitanti di una città e del suo territorio. La gazzetta veneziana (solitamente confezionata nel Cinquecento nel sestiere di Rialto al Calle degli Scrittori) si distingueva dai fogli più ufficiali e controllati che venivano scritti presso il rione di San Marco, per cui la gazzetta aveva una pessima reputazione a Palazzo ed era stimata come un foglio di informazione di scarsa affidabilità, quasi una raccolta di pettegolezzi cittadini. Subito il termine gazzetta è entrato come vocabolo nel linguaggio delle altre lingue europee ed è arrivato fino ai nostri giorni. Non pochi giornali hanno ancora questa intestazione, compreso l ’ odierno quotidiano di Venezia, “Il Gazzettino”, fondato nel 1887. Il mondo delle gazzette di Rialto è citato anche da Shakespeare nella sua opera teatrale “Il mercante di Venezia”, quando fa chiedere al personaggio Shilock se fossero arrivate le notizie da Rialto (“news from Rialto?”, scena III). Per vedere in Italia una gazzetta non più manoscritta ma stampata si dovette attendere il 1636, quando il granduca toscano Ferdinando II, concesse a Lorenzo Landi e Amatore Massi di stampare una gazzetta a Firenze. Seguirono Genova nel 1639, Milano nel 1640 [21].
I termini “reporto” o “retorno”, accentuano maggiormente il trasferimento delle notizie da una città all ’ altra, quasi come risposta ed eco di altre notizie inviate: “Rapporti ordinarij correnti sin questo dì...” (c. 554v); “Avisi. Reporti ordinarij” (c. 531v)”. Spesso viene usato il termine “rumore”, quando la notizia riportata veniva giudicata come ancora incerta, un po ’ confusa e contraddittoria, quasi sempre perché proveniente da zone troppo lontane o di guerra o politicamente instabili: “Di Francia con l ’ ordinario confermano li rumori scritti con le passate lettere...” (c. 155r/89).
La geografia degli avvisi
È facile immaginare l ’ enorme flusso di notizie che giungevano a Roma da tutta l ’ Europa e avevano come destinazione anzitutto il papa e la sua curia romana. Ma arrivavano anche lettere e dispacci destinati alle varie ambasciate dei paesi accreditati presso il papa, ai cardinali, alle varie case nobiliari, alle tante case religiose, ai mercanti, e a volte anche direttamente alle stesse agenzie di informazione. Roma continuò ad essere, ancora per tutta la seconda metà del Cinquecento, forse il più importante centro europeo di affluenza e di smistamento di corrieri e corrispondenti, e quindi di raccolta e diffusione di notizie a stampa o manoscritte. E questo perché Roma, per la sua centralità geografica, politica e religiosa, era uno snodo fondamentale di tutte le notizie provenienti sia dai vari Stati italiani che europei, diventando il caleidoscopio di una visione globale dell ’ intero mondo occidentale: Genova governata da Gianandrea Doria; Torino con Carlo Emanuele I di Savoia; la Repubblica di Venezia con il doge Pasquale Cicogna (e Venezia a sua volta raccoglieva e rilanciava le notizie non solo della vivace città, ma anche dal mondo turco, persiano, russo, tedesco e polacco); il granducato di Toscana con Francesco I prima e Ferdinando I de Medici dopo; il ducato di Parma con Ranuccio Farnese; il ducato di Mantova con Ferdinando Gonzaga; il ducato di Ferrara con Alfonso II d ’ Este; il ducato di Urbino con Francesco Maria II della Rovere; il regno di Napoli con i viceré spagnoli; la Francia con il Re cristianissimo Enrico III; la Spagna con il Re cattolico Filippo II; il Sacro Romano Impero con l ’ imperatore “cesareo” Rodolfo II d ’ Asburgo; l ’ Inghilterra con la “eretica” regina Elisabetta; i Paesi Bassi con la Fiandra occupata dalla Spagna e l ’ Olanda alla ricerca della propria autonomia; la Polonia con il re Stefano prima e Sigismondo III dopo; il grande Impero turco-ottomano con il “Gran Signore” Murad III.
Le notizie si intrecciavano da più luoghi contemporaneamente: “Da Napoli s ’ intende che...” (c. 205r/85); “Avisano di Torino, che...” (c. 45v/86); “Per avisi di Genova s ’ intende che...” (c. 85r/86); “Qui [da Venezia] s ’ ha avviso da Firenze, venuto là da Siviglia, che...” (c. 184v/86); “Era arrivato aviso di Olanda, come...” (c. 407v/86); “Lettere di Praga per via d ’ Augusta non dicono altro se non che...” (c. 536v/87); “Lettere di Londra delli 10 del presente dicono che...” (c. 17r/87); “Di Fiandra scrivono...” (c. 47r/88); “S ’ intende da Malta che...” (c. 76/88); “Di Candia s ’ intende...” (c. 132v/88); “Alcuni tengono aviso, che in Svetia...” (c.188v/88); “Per lettere di Monaco in Baviera delli 22 passato si conferma, che ’ l Moscovito mandasse li 50 mila Tartari scritti in Lithuania...” (c. 202v/88); “Vien scritto da Roano del 2 di settembre et di Parigi delli 3 et da Bruges delli 4, et di Londra di 24 del passato, che...” (c. 465/88); “Delli 6 di questo di Lione, delli 3 di Parigi, et 24 del passato di Londra, s ’ intende...” (c. 470v/88); “D ’ Amburgo avisano, che...” (c. 61r/89); “Di Colonia scrivono, che...” (c. 112v/89); “D ’ Augusta scrivono delli 18 del presente, che in Alemagna...” (c. 113r/89); “Sabbato mattina per via di Milano ci furono lettere estraordinarie di Lione del 19 che ne accusano di Parigi del 14 et 15 con aviso, che...” (c. 284v/89); “Alcuni avisano d ’ Anversa che ...” (c. 297r/89); “Altri mostrano lettere di Barcellona delli 19 del passato con aviso, che...” (c. 427/89); “Parlasi delle cose di Portogallo...” (c. 452v/89); “S ’ intende da Basilea, che li popoli di Berna si erano sollevati...” (c. 720/89); “Il Serenissimo di Ferrara ha mandato le lettere...” (c. 14r/90); “Lunidì mattina giunsero lettere di Costantinopoli di 10 passato...” (c. 26v/90); “Il Re di Polonia, come scrivono con l ’ ultime di Craccovia...” (c. 29v/90); “Per lettere di Modena...” (c. 60r/90).
Ma le notizie arrivavano anche dal nuovo mondo delle Americhe e dall’Estremo Oriente, dal momento che addirittura nel 1585 giungono a Roma alcuni ambasciatori giapponesi [22].
Uno scrittore di avvisi annota: “Roma tutto sa, et nulla tace” (c. 210v/86), perché “la misura del tempo si era trasformata e la corsa per informare, trasportare merci e passeggeri, collegare luoghi lontani indica, se non delle vittorie, certamente dei progressi notevolissimi” [23].
La “fabbrica” degli avvisi
Ma per muovere le notizie occorre anche una organizzazione.
Già dal Medioevo l ’ Europa poteva contare su un sistema d ’ invio delle notizie ad opera di imprenditori privati. “Documenti della fine del Trecento e del secolo successivo attestano organizzazioni evolute di corrieri e di mastri di posta in grado di gestire la corrispondenza in tempi rapidi lungo itinerari che stavano progressivamente estendendosi: da Milano occorrevano 26 giorni per Londra, 16 per Parigi, 18 per Barcellona, 11 per Roma, 4 per Venezia. Nel corso del Quattrocento il sistema andò perfezionandosi, sicché, quando agli inizi del Cinquecento la famiglia d ’ origine bergamasca dei Tasso riuscì ad assicurarsi l ’ appalto dei servizi postali dell ’ Impero, poteva contare su modelli sperimentati e sicuri a cui fare riferimento... Fu allora che venne a stabilirsi quel legame tra i servizi di posta e le notizie” [24].
Una volta giunte a Roma (ma anche a Venezia o Praga o Madrid, ma cito soprattutto Roma per rimanere nello specifico dei nostri avvisi “urbinati-romani”), iniziava un processo di elaborazione molto simile a quello di una sede moderna di un giornale. I gazzettieri costituivano delle piccole redazioni, vere e proprie agenzie di informazione, che nella seconda metà del Cinquecento a Roma erano collocate nel popolare e centrale rione di Parione, oggi una traversa di via del Governo Vecchio, vicino a piazza Navona [25].
Anzitutto il primo problema di un ’ agenzia era il recupero delle notizie, a cominciare di quelle che giungevano dall ’ Italia e da tutta Europa, ma anche gli scritti ufficiali emanati dal governo (bandi, decreti, lettere, rapporti giudiziari, nomine, spostamenti di incarichi...). Occorreva andare alla scoperta delle notizie minute, forse poco importanti ma comunque preziose per solleticare la curiosità e il prurito del pettegolezzo. D ’ altra parte era proprio la smania del pettegolezzo che faceva vendere ancor più copie di un avviso. C ’ era bisogno quindi di un fiuto particolare e una maestria consolidata dall ’ esperienza. Certamente a Roma (come altrove) era molto importante avere le giuste amicizie presso coloro “che dicono di sapere” (c. 368r/87), per poter carpire notizie riservate o nuovissime: occorrevano le giuste entrature presso i personaggi ragguardevoli e anche essere amico di un amico, come quando una notizia viene data per certa semplicemente perché l ’ estensore del foglio frequenta la casa di un famoso monsignore romano (“il scrittore è suo continovo commensale”, c. 326 r/87), come per dire che se spesso mangia con lui, è più che sufficiente dargli credito!
A volte per conoscere l ’ ultima novità ancora inedita bastava prendere al volo una mezza parola pronunciata da un cardinale o un accenno fatto da un ambasciatore, anche se poteva accadere che qualcuna di queste notizie appena abbozzate o sussurrate ci ricamava sopra, ci vedeva fantasiose connessioni, ci costruiva personali congetture spacciandole per certezze, creando in questo modo opinioni che spesso diventavano notizie certe presso le corti e il popolo, sempre avidi di novità. Negli avvisi costoro sono chiamati, con una certa ironia, “speculativi” (c. 400v/87).
Questo recupero delle notizie non era un lavoro facile, soprattutto per la grande varietà (e spesso contraddittorietà) dei canali informativi. Comunque a Roma e Venezia le notizie si pescavano bene, e “le statue parlanti del Pasquino e del Gobbo, i portici di Rialto, le vie più frequentate vicino alle dimore dei grandi prelati e agli uffici pubblici, o i quartieri degli affari, dei fondachi e delle banche, costituirono altrettanti crocevia e portifranchi di una letteratura che venne via via guadagnando un pubblico curioso di novità” [26].
Alla varietà delle notizie doveva però seguire un necessario lavoro di revisione, vaglio, confronto, riadattamento, assemblaggio, per poter creare una cronaca il più possibile ordinata e sicura dei fatti.
Dopo aver reperito il materiale in qualsiasi modo possibile, si doveva passare a stilare una cronaca quanto più fedele e veritiera dei fatti vicini e lontani, una cronaca che si potrebbe chiamare “ufficiale”, tale cioè da poter essere divulgata senza alcuna censura e senza entrare in problemi da embargo, o in segreti conosciuti solo ai detentori del potere. Certamente tale cronaca “ufficiale” non esauriva il vasto mondo delle notizie, perché non era facile parlare di quelle più delicate e nascoste nei maneggi politici. Un esempio di questo mondo parallelo di notizie riservate ce lo da un “intimo” (cioè segretario e ambasciatore) del duca d ’ Urbino a Roma, Grazioso Graziosi, che in una lettera datata l ’ 11 giugno 1588 chiede al suo padrone qualche notizia extra, di quelle che non si potevano leggere negli “Avisi publici”: “Io non vengo da Vostra Signoria per esserli manco molesto, ma la supplico a favorirmi di qualche cosa di quelle notizie di Francia che non vanno per gli Avvisi publici, et si possano dire a pari miei. Spetialmente dessidero sapere, se sia vero, che ’ l Re...” (c. 263r/88). E il Duca l ’ accontenta e fa stilare da uno scrivano due pagine di notizie “riservate”.
La cronaca era compilata in una successione di notizie in base al luogo di provenienza delle notizie stesse: anzitutto venivano stese quelle di Roma, alle quali seguivano, con un ordine quasi standardizzato, quelle di Anversa per le Fiandre e l ’ Olanda, quelle di Colonia e Augusta per la Germania e il Nord Europa (Scandinavia, Danimarca e Moscovia), quelle di Praga per l ’ impero asburgico e la Polonia, quelle di Lione (più di Parigi) per la Francia, quelle di Madrid per la Spagna e territori italiani da essa governati, quelle di Venezia per la Serenissima e l ’ impero ottomano e tutto il Levante (Balcani, Grecia, il vasto impero ottomano, la Persia). Il tutto in una sequenza e successione continua [27], senza apposizione di titoli ma solo di nomi di città con le relative date, formando in tal modo una cronaca molto simile ad uno zibaldone di notizie.
Si trova a volte che lo stesso fatto di cronaca è stato stilato da due diversi estensori a distanza di un giorno, forse all ’ interno della stessa agenzia: “dimane haverà Concistoro pubblico” (c. 238r/85); “questa matina ha avuto Concistoro publico” (c. 244v/85).
Le “agenzie giornalistiche” del Parione si comportavano come veri e propri laboratori di scrittura, in stile quasi industriale, con coloro che erano addetti al reperimento della carta, altri alla stesura del testo, altri alla copiatura del testo (anche fino a 50-70 copie), altri poi alla vendita e altri alla spedizione, a disposizione di un mercato sempre più florido e avido di notizie. “Gli investimenti erano irrisori: bastava un po ’ d ’ inchiostro, qualche foglio di carta e un angolo più o meno tranquillo dove operare... Il copiare testi poteva costituire un ’ attività integrativa a margine di impegni diversi che richiedevano qualche dimestichezza con la scrittura. Così poteva accadere a maestri di scuola, a impiegati in pubblici uffici, a religiosi in conventi o monasteri” [28].
La eterogeneità dei copiatori si nota nella molteplicità delle grafie che si susseguono: alcune hanno ancora quella classica bellezza della scrittura del Cinquecento, dal bel tratto e dalla lettura chiara e facile (come i ff. 517r-v/85 oppure il c. 543r/85); altre invece risentono della grafia già seicentesca, più trasandata, “barocca” nei segni svolazzanti che rendono più difficile la lettura; altre grafie poi risultano quasi illeggibili. Esempi di pessima grafia sono (nel solo volume del 1586): 92r-v; 100r; 109r, 133v, 185v, 193r, 209r-v; 216r-v). Alle differenti grafie si aggiunge la diversa padronanza della grammatica, dell ’ uso della punteggiatura, del modo di fraseggiare e di riportare i nomi (ad esempio Guisa o Ghisa o Gisa...).
Gli avvisi uscivano con una regolare cadenza settimanale [29] e sembra che il giorno di uscita degli avvisi fosse il sabato, per essere pronte per lo smercio di fine settimana, stando almeno a certi indizi: “Sabbato scriverò quel più che potrò saperlo” (f. 394v/86); “Lo scrittore sabbato restò di mandare gli avisi al solito... Questa sera dunque si passarà brevemente et sabbato si supplirà al tutto” (c. 593r/89) [30]. Ogni foglio redatto al sabato continuava la narrazione della settimana precedente, per poi proseguire con il foglio della settimana successiva. Tale cadenza settimanale è il segno di una regolarizzazione del sistema postale europeo, dal momento che tutti ormai sapevano che in un giorno stabilito e ad un ’ ora precisa partiva dalla città o arrivava in essa il corriere, per cui la successiva pubblicazione degli avvisi coincideva con questo arrivo dei corrieri. Ed è proprio per questa ormai acquisita periodicità che gli avvisi meritano di essere considerati gli antenati dei giornali, che si basano sulla regolarità di pubblicazione.
Il foglio volante (che oggi provvidenzialmente troviamo rilegati in volumi) permetteva sia una rapida esecuzione che un ’ altrettanto rapida diffusione. Si usava un tipo di carta facilmente trovabile in commercio e di formato ordinario, anche se non mancano avvisi su carte di dimensioni diverse, specie se provenivano da Francia o da Spagna, con formati più consoni a lettere private (anche di mezzo foglio), vistose piegature, lacerazioni, piccole sporcizie per i passaggi di mano in mano e per la consuetudine dei corrieri di collocarle sotto le vesti.
Quasi sempre la loro conservazione è ottima, anche se non mancano problemi di leggibilità non tanto e non solo per qualche grafia davvero impossibile (qualcuna al limite dell ’ immaginabile), quanto per l ’ utilizzo da parte dello scrittore sia di inchiostri ferro-gallici che hanno provocato fenomeni di perforazione della carta, sia di un tipo di carta particolarmente porosa, con il conseguente fenomeno dello spandersi dell ’ inchiostro in alcune carte, tale da trasformare le righe in estese macchie nere del tutto illeggibili. Per fortuna uno solo di questi sei volumi presi in considerazione presenta tali problemi, ed esattamente l ’ Urbinate Latino 1054 relativo all ’ anno 1586 [31].
Una volta stilata e riprodotta, la cronaca era a disposizione dei compratori (“A lettori di questi fogli”, c. 190v/87), degli addetti delle ambasciate, che a loro volta inviavano i fogli alle rispettive corti disseminate in Italia e in Europa [32]. Era normale che vi fosse uno stretto rapporto fra le agenzie di informazione e gli addetti alle ambasciate, perché ciò era di reciproco tornaconto. I gazzettieri avevano bisogno di persone “che sapevano” e che potevano fornire materiale informativo di prima e sicura mano; l ’ ambasciatore aveva bisogno di aggiornare la sua corte con le informazioni, sempre nuove e di spedirle con regolarità.
Acquistato il foglio d ’ avviso al prezzo di mercato [33], questo poteva ora essere spedito così com ’ era, senza aggiungere nulla e spesso senza neppure leggere il testo, per cui a volte ci si trova nella buffa situazione di incontrare un foglio spedito da Roma ad Urbino con notizie sul duca di Urbino che riportano le notizie provenienti da Urbino! [34].
Molto spesso i mandanti degli avvisi (ambasciatori, o addetti all ’ ambasciata, o segretari personali o agenti vari) aggiungevano al foglio delle agenzie alcune loro personali riflessioni, o scritte a margine al foglio, o cancellando e correggendo qualche parte del testo, o anche unendo all ’ avviso un secondo foglio personale di commento, riprendendo le varie frasi dell ’ avviso stesso e ampliandole con osservazioni e aggiunte di notizie più fresche (o ritenute più vere) che nel frattempo si erano potuto avere, con veri e propri “post scriptum” (o “poi scritto”) o con alcune significative variazioni temporali, come nella carta 494r/87 dove la parola “hoggi” è stata corretta in “lunedì” o alla c. 756/89 dove si legge “questa mattina” al posto di “hieri mattina”. Si trova anche una simpatica aggiunta di scuse [35].
Incontriamo fra gli avvisi alcuni fogli (quasi sempre provenienti dalla Spagna o dalla Francia o dalla Fiandra) che sono inconfondibili, sia per il loro diverso formato di carta fuori degli standard dell ’ avviso compilato a Roma, ma soprattutto per le loro insolite grafie, il più delle volte illeggibili, oltre che per la loro cronaca redatta in un italiano zeppo di termini stranieri. Un esempio fra tantissimi è il resoconto in prima persona della battaglia avvenuta in Francia fra il Duca di Guisa e i mercenari tedeschi dell ’ ottobre 1587 (cc. 491r-v/87). Tali fogli sono stati spesso un vero problema per la trascrizione, e penso di non sbagliare dicendo che sono stati spediti ad Urbino dall ’ agente del duca così com ’ erano, senza neppure cercare di tradurle o riassumerle, ma come pezze d ’ appoggio a conferma delle notizie più ordinate e riassuntive dei fogli delle agenzie romane.
Spessissimo abbiamo doppioni di una stessa cronaca e con la stessa data, quasi sempre collocati uno dopo l ’ altro: molte volte combaciano nelle stesse parole e nelle stesse righe, mentre altre volte vi sono aggiunte di particolari, tagli di notizie o il soffermarsi più a lungo su una notizia tale da renderla più completa e interessante. Un esempio di cronaca doppia ma non uguale è senz ’ altro il solenne rito della rinuncia al cardinalato del Gran Duca di Toscana, Ferdinando de Medici, fatta in concistoro negli ultimi giorni di novembre o nei primi di dicembre del 1588: mentre una cronaca (c. 615r/88) risente della rigida ufficialità della segreteria papale ed è alquanto asettica e impersonale, l ’ altra (c. 607v e 609r/88) è più generosa nei particolari, più spontanea nel racconto e anche più impietosa nei giudizi formulati senza alcuna difficoltà.
Naturalmente in tutto questo lavoro di recupero delle notizie, selezione di esse e scrittura le numerose agenzie erano in normale concorrenza fra loro, con interessanti retroscena, come l ’ accaparramento dei clienti, il rubarsi le notizie, la copiatura abusiva di fogli, la differenziazione del costo dei fogli... con l ’ immancabile litigio che poteva seguire.
A Roma ricorrevano a tali agenzie non solo le ambasciate o le case nobiliari, ma anche i privati cittadini, spesso per bisogni ed eventi personali, o semplicemente per far conoscere alla città notizie personali o del proprio re o della propria città lontana o semplicemente per spargere pettegolezzi di cui la città era estremamente ghiotta. Nel maggio 1590 l ’ ambasciatore di Enrico di Navarra (che era ancora in sospeso se poter diventare re di Francia dopo la morte di Enrico III) fece uso degli amanuensi del Parione, anche contro la licenza accordata dalla curia, per far conoscere a Roma la reale situazione che si stava vivendo in Francia in quei travagliati mesi: “Monsù di Luccemburgh non havendo potuto ottenere licenza dal Cardinale Rusticuccio, ne meno dal Papa, che si stampi la giornata scritta di Francia et vittoria di detto Navarra, tiene occupati tutti li scrivani di Parione in farne molte copie, acciò si publichi” (c. 213v/90).
Un esempio di compilazione di un avviso
Immaginiamoci un “gazzettiere” di Venezia, che ogni settimana deve andare a caccia di notizie per stendere il suo prossimo avviso-gazzetta. Venezia è una città cosmopolita e vi si respira una maggiore libertà di espressione che in altre città d ’ Europa e, come a Roma, vi affluiscono, attraverso le strade e il mare, notizie di ogni tipo, dispacci ufficiali ordinari e straordinari, editti e decreti di ogni tipo, racconti di guerre e movimenti di eserciti, chiacchiere e pettegolezzi, idee strampalate e supposizioni, come un torrente ricco d ’ acqua dove si può pescare di tutto. È giovedì e nei giorni precedenti ha aspettato i dispacci in arrivo dalle varie città europee e ha anche chiesto e “origliato” presso le segreterie di uffici pubblici e degli ambasciatori accreditati presso la Serenissima. Naturalmente ha usato anche la massima attenzione ai fatti quotidiani della città lagunare e del suo vasto territorio di terraferma che arriva fin quasi alle porte di Milano. Ora è arrivato il momento di stendere la sua nuova relazione manoscritta, e per sabato deve averla fatta copiare perché possa essere pronta per la distribuzione a mano e la vendita.
Siamo a gennaio del 1588. Il 22 è arrivato a Venezia il dispaccio ordinario di Lione, che porta la data del 13 gennaio con notizie fresche sugli eventi della Francia e della corte del Re “cristianissimo”. Informa, tra l ’ altro, del ritorno del re Enrico a Parigi dopo una campagna di battaglie contro gli Ugonotti protestanti appoggiati da Enrico di Navarra e da un forte esercito di mercenari tedeschi ormai allo sbando. Il dispaccio racconta del ritorno trionfale del re vittorioso e del suo Te Deum di ringraziamento a Dio nella cattedrale parigina di Notre Dame. Oltre a questa notizia il dispaccio di Lione parla anche di un ’ altra piccola vittoria avuta dal duca di Guisa contro un gruppo di Ginevrini e anche della notizia della presunta morte del Navarra. Fermiamoci su queste due ultime notizie.
Il dispaccio di Lione dice testualmente: “Il signor Duca di Guisa col figliuolo del signor Duca di Lorena doppo l ’ haver messo in rotta tutto il campo nimico se ne sono andati con cinque mila Cavalli a una devotione di S. Ghiodo vicina a Geneva a una in due giornate quali misero non poco terrore alli habitanti d ’ essa Città per diverse volte, quali si risolsero di mandarli a riconoscere con cinque in sei cento Archibugieri della loro Città che se non erano presto a ritirarsi vi restavano tutti benché ne furono prigioni sessanta, che Monsignor di Guisa fece subito impiccare. Li Reistri avanzati che erano al numero de 1800 si trovavano in quel contorno et hebbero tanta paura di Sua Eccellenza che nel voler passare una fiumana con molta fretta se n ’ affogarono da quattrocento, et a popo poco se ne vanno disperdendo... Si va poi continuando la morte del Re di Navarra e questa è grande cosa che doppo il primo avviso non si è mai sentita novella di lui, né dove lui si sia, et sopra questa piazza vi sono mercanti che danno a 25 per cento e dicono che è morto alla fine se ne dovrà pur sapere la verità” (c. 48r-v/88).
Di per sé basterebbe riassumere la notizia e inserirla nella prossima gazzetta, ma invece è sorta una complicazione, perché oltre che al dispaccio di Lione sono arrivate a Venezia anche altre notizie sullo stesso argomento e non proprio del tutto concordi. Da chi sono arrivate? Probabilmente dalla parte avversa, quella degli Ugonotti e di Navarra, o forse dai mercanti di passaggio o da qualche ambasciata europea. Il povero gazzettiere si trova ora a dover stilare la sua cronaca con la percezione di avere fra le mani due verità difficili da vagliare, per cui non gli rimane altro che “personalizzare” il foglio in base alla percezione che ha ricavato dal tutto, non essendo estraneo neppure la sua “simpatia” per l ’ una o l ’ altra parte.
A questo punto i lettori di Venezia (ma anche di Roma) hanno in mano la gazzetta di Venezia del 30 gennaio 1588: “Il Duca di Ghisa, et Marchese di Loreno dopoi la disunione de nemici erano andati ad una devotione di S. Claudio doi leghe presso Genevra con 3 mila Cavalli, li quali havevano messo gran terrore a quella Città, di dove essendo usciti 500 pedoni per riconoscere il nemico, corsero gran pericolo d ’ essere tagliati a pezzi restandone da 60 pregioni che furono subito impiccati. Gli Raitri che si trovavano in quel contorno per paura volendo fugire nel passare uno fiume s ’ erano annegati da 400 di loro. Navarra era vivo, et le sue genti disfatte” (c. 49r/88)
Il foglio venuto da Lione e l ’ avviso stilato a Venezia parlano dello stesso fatto, ma in realtà a Venezia la notizia è stata ricomposta e modificata. Sorvolando sull ’ insignificante differenza del nome Ghiodo-Claudio, le due notizie differiscono però nei numeri (3 mila contro 5 mila cavallieri; 500 pedoni contro cinque o seicento archibugieri) ma soprattutto divergono sulla dibattuta notizia circa la vita o la morte del Navarra: dalla Francia viene ancora ribadito il dubbio, nell ’ attesa di ulteriori conferme, mentre da Venezia si dice categoricamente che egli è vivo.
Poiché da questo momento il foglio di Lione e il foglio di Venezia circoleranno ambedue per l ’ Europa e arriveranno a Roma (come in effetti arrivarono), è evidente che le notizie che vi si leggono assumono i contorni della imprecisione e del dubbio e alimenteranno a loro volta altri avvisi colmi di “si dice che...”, “da Venezia viene la nova che...”. E nel corso del suo lungo cammino la stessa notizia (da Madrid a Costantinopoli) forse si modificherà ancora, almeno per alcuni giorni, con immancabili altre “personalizzazioni”, come succede con le chiacchiere circolanti in un vicolo romano o in una calle veneziana che si modificano di bocca in bocca. E questo sempre nell ’ attesa di un prossimo dispaccio che finalmente confermi ogni cosa.
Fogli pubblici e fogli separati
Nel volume del 1588 si trova un breve scritto, collocato sul retro della carta 106v. La grafia non è quella del menante che ha scritto l ’ avviso, ma di Grazioso Graziosi, segretario-agente del duca d ’ Urbino presso il papa, che regolarmente raccoglie gli avvisi venduti sulla piazza romana e li invia alla corte urbinate. Egli scrive: “Ho avvertito costui, che scriva certa sorte di cose in fogli separati, et perché per non scoprirmeli troppo, non li dichiaro ben bene i particolari, mi scrive anco in questi fogli separati, delle cose che si potriano lassar vedere, pure questo è minore errore, che di mettere quelli che non si vogliano lassar vedere nel foglio publico. Questa a punto è stata una delle sere che il copiarli era impossibile”.
La frase non è limpida e scorrevole, ma si capisce comunque che non sempre un avviso circolante e ufficiale trovato sulla piazza (qui chiamato “foglio publico”) è preso, pagato e inviato a destinazione così com ’ è, ma viene prima letto, chiosato, cancellato nelle notizie ritenute false o poco importanti, riscritto in bella copia da altri amanuensi e finalmente inviato. Il responsabile dell ’ invio, infatti, chiede alle agenzie che compilavano gli avvisi di poter disporre di alcuni “fogli separati” per le notizie più delicate o incerte o comunque da rivedere e “che non si vogliano lassar vedere nel foglio publico”. Ciò si legge anche alla carta 340v del 1587, in cui si afferma candidamente che: “questo foglio separato io lo facirò fare di cose che non mi parano da vedersi da tutti”. Può capitare per vari motivi che tale lavoro di cernita e di “pulitura” delle notizie non sempre era possibile, per cui, come abbiamo già visto, il responsabile avvisa il duca che “questa a punto è stata una delle sere che il copiarli era impossibile”.
Certamente la pulitura e ricopiatura non era cosa facile, specie dei fogli che venivano da Oltralpe, che spesso usavano un italiano stentato, sgrammaticato, senza l ’ uso della punteggiatura o delle maiuscole, per cui più di una volta il copista deve candidamente aggiungere la frase: “Né anco nell ’ originale s ’ intende” (c. 509v/89).
Gli scrittori degli avvisi
Scrive l ’ Orbaan: “Chi ci sfugge quasi sempre, anche nella lettura diligente di molti volumi d ’ “avvisi”, è l ’ autore... Egli si avvolge in un certo mistero, rinunzia spesso alla propria personalità” [36].
L ’ anonimo estensore degli avvisi si sente, a suo stesso dire, “l ’ Autore” per eccellenza: “Teme l ’ Autore a dir le cose prima che siano successe” (c. 294r/85); “Tiene l ’ Autore per certo, che...” (c. 540v/85); “Volendo l ’ auttore di questi fogli...” (c. 270r/86); “L ’ Autore aggiunge allo scritto che...” (II, c. 593r), oppure: “Non si ricorda l ’ Auttore di havere scritto, che...” (II, c. 596v), o “Non prima che hora ha inteso l ’ Autore che...” (c. 337v/87).
Spesso invece si presenta semplicemente e vagamente come “Scrittore”: “Lo Scrittore non crede che sia vero...” (c. 25r/86); “Lo Scrittore sabbato restò di mandare gli avisi al solito...” (c. 593r/89); “Lo scrittore questa settimana sarà breve...” (c. 84r/90).
Una sola volta ho trovato negli avvisi del 1586 il termine “Paragrafanti” (c. 242r/86), usato dallo stesso scrittore per definire gli altri suoi “colleghi”, con una punta polemica a motivo del loro disaccordo su un caso di condanna a morte.
Ma il termine senza dubbio più usato per indicare lo scrittore degli avvisi e delle gazzette è quello di “Menante”: “Avvisi regolari del novo Menante al signor Veterano” (c. 286v/85); “Alcuni Menanti tengono aviso...” (c. 356v/87); “Il Menante è male informato...” (c. 128r/87); “Alcuni Menanti tengono aviso di Colonia” (c. 356v/87). L ’ etimologia del nome è controversa. Forse derivante dal latino “amanuensis”, cioè colui che ricopia un testo; forse lo si può collegare a “colui che mena”, cioè conduce e dirige l ’ opinione pubblica, o forse è la derivazione dalla parola latina medievale “mina”, che indica l ’ intrigo e la macchinazione, per cui il “menante” sarebbe colui che con lo scritto diventava l ’ intrigante della penna, che complottava contro altri. Tale significato negativo sembra più convincente, perché combacia con la brutta fama che aveva il “menante” e ci aiuta a motivare la repressione che l ’ autorità usò verso costui, visto come produttore di libelli diffamatori, calunniatore e rozzo polemista. Sotto questa veste infatti il menante appare nelle bolle pontificie e nei decreti e bandi degli Stati, che non sono affatto teneri con questa “setta di uomini illecitamente curiosi” (vedi qui sotto la bolla di Pio V). Era comunque un uomo sospettato di curiosare troppo e di essere spesso fomentatore di calunnie e diffamatore per mestiere, e tutto ciò per ricavarne profitto economico: “I compilatori di tali effemeridi, che in Roma chiamavansi Menanti, passavano la vita ad origliare in Banchi e nelle anticamere cardinalizie, traendo non piccolo profitto dal loro mestiere” [37].
A Roma i papi della seconda metà del Cinquecento furono molto duri in generale con la “menanterìa”, allo scopo di controllare questo fluido e versatile (e quindi pericoloso) mondo della comunicazione, vedendo in esso solo un possibile veicolo di falsità, di dicerie e di calunnie.
Il 17 marzo 1572 Pio V emanava la “Constitutio contra scribentes, exemplantes et dictantes monita vulgo dicta gli Avisi et Ritorni” [38].
Il testo dice: Nessuno, di qualsiasi genere, dignità anche ecclesiastica, stato, grado, condizione o importanza, si permetta o presuma di rivelare, trattare, dettare, scrivere, copiare, tenere o inviare libelli famosi o lettere chiamate popolarmente “Lettere di Avisi”, contenenti insulti, ingiurie o offese alla fama e all ’ onore di qualcuno, o altre scritture che mettono sconcerto per le cose future o che rivelano notizie che sono materia di trattazione segreta da parte nostra o di altri incaricati nella gestione della Chiesa universale, anche se tale materiale fosse giunto nelle proprie mani da altre provincie, città, paesi o villaggi” [39] ... Essendo sorta da non molto tempo una nuova setta di uomini illecitamente curiosi, i quali propongono, accettano e scrivono ogni notizia riguardante gli affari pubblici e privati, o di cui vengono a conoscenza o che per loro malignità inventino, tanto del proprio paese, quanto dall ’ estero, mescolando senza alcun ritegno il falso, il vero e l ’ incerto... e la maggior parte di loro, anche per un vile guadagno, spediscono di qua e di là queste notizie raccolte dalle voci del popolo, dopo aver fatto piccoli riassunti e senza nome di chi li scrive... Noi, volendo togliere di mezzo questi inconvenienti... proibiamo che nessuno osi in futuro compilare siffatti riassunti, né voglia ricevere, copiare, diffondere o spedire quelli composti da altri...” [40].
In un concistoro di cardinali del 2 marzo 1572 Pio V disse senza mezzi termini che vi erano di quelli “che scrivono nove, rivelando li segreti, dicendo che scrivevano delle imperfetioni altrui, et che vi mescidavano di molte bugie, et con non poco scandalo, cosa che non era da tollerare” [41].
Tale proibizione fu ripresa di sana pianta dal successore Gregorio XIII, con la bolla “Ea est”, del 1º settembre 1572 (“Contra famigeratores et menantes”), e da Sisto V con il bando del governatore di Roma del 10 ottobre 1586: “Bando Contra li Calunniatori e detrattori della fama e honor d ’ altri, in lettere d ’ avisi, o altrimente” (vedi foto a pagina XXII) [42].
Questa diffidenza dei papi nei confronti della menanteria in genere (considerata come “scioccarie di Banchi ’ ) ci turba non poco, ma dobbiamo pensare che “ogni semplice informazione a Roma, regno della pasquinata, facilmente degenerava nel “libello famoso”, vale a dire nella notizia che intaccava la fama, cioè il buon nome altrui, o soprattutto perché essendo inconcepibile la libertà di informazione, appariva un vero attentato contro l ’ autorità anche la semplice indiscrezione” [43].
Quindi “la severità di tali primi interventi va relativizzata in riferimento ai destinatari e in funzione della qualità delle scritture poste in commercio. Più che gli avvisi pubblici ordinari, erano altri scritti, spesso presenti nei repertori dei menanti, a cadere sotto osservazione, come le relazioni più ampie di carattere politico, le predizioni e le composizioni satiriche e infamanti, queste ultime molto ricercate soprattutto a Roma, dove venivano regolarmente utilizzate nelle schermaglie politiche tra fazioni contrapposte... Paolo Alessandro Maffei, biografo settecentesco di Pio V, ricordando quel provvedimento del 1572 lo giustificava con la necessità di punire coloro che con libelli calunniosi e “avvisi segreti” avevano in più occasioni fomentato discordie feroci” [44]. Un avviso del 1570 riferisce che Pio V si scagliava contro gli eccessi e non contro chi scriveva “le cose pubbliche senza detraher alcuno” [45].
Naturalmente il controllo della stampa e degli scritti in genere fu anche un problema di tutti gli altri Stati. Sistemi di censura furono istituiti in Spagna, Francia, Germania, Inghilterra. Qui Enrico VIII promulgò il “licensing system” (letteralmente “sistema di licenze”) per controllare i libri pubblicati, come fece pure il suo successore Edoardo VI. Anche Elisabetta I condusse un serrato controllo attraverso il tribunale della Camera Stellata. A Venezia il Consiglio dei Dieci l ’ 8 febbraio 1572 emanò una ordinanza che è molto simile a quella di Pio V [46]. Lo stesso avveniva in altri Stati italiani: “Come a Venezia, il tentativo di imporre un controllo preventivo sugli avvisi si era avuto in vari altri Stati. Nel 1631 a Napoli il Consiglio Collaterale aveva disposto la verifica dei fogli ivi redatti. Provvedimenti analoghi erano stati presi a Genova nel 1634” [47].
Da queste bolle papali e dai decreti veneziani si nota che il potere considerava i menanti come scrittori pericolosi, “pestiferi huomini” e di conseguenza comminavano pene pesanti: galera, bando e addirittura morte, equiparandoli ai ladri e ai sicari, senza distinguere troppo fra i mistificatori e gli scrittori professionisti degli avvisi di cui ci occupiamo: “E comunque, che spesso alcuni menanti fossero personaggi di pochi scrupoli pronti a vendere la propria penna a questo o a quel partito, se non inventori di notizie false ma di largo successo o addirittura pornografi è certamente assodato” [48].
Negli avvisi si conosce il nome di almeno un condannato a morte come “novellante”: don Annibale Cappello, giustiziato il 14 novembre 1589: “Questa matina è stato appiccato in Ponte quell ’ Annibale Cappello di cui si scrisse, dopo essergli tagliata la lingua, et la mano, inchiodate poi in cima alla forca” (c. 579r. /89) e sulla forca si poteva leggere come motivazione della condanna: “Falso menante et detrattore per molt ’ anni d ’ ogni grado di persone, con disprezzo et derisione de Santi, facendo professione di tenere et mostrare con gran scandalo figure oscene in ogni atto libidinoso, et diffamato di havere mandato avisi a Principi heretici” (c. 478v/87). E fu proprio dopo questa condanna che uscì un editto denominato “corrige”, proprio per dare regole ancora più precise agli scrittori degli avvisi dopo il precedente bando del 1586: “Per nuovo bando uscirà il tema corrige, overo riforma in istampa sopra lo scrivere avisi” (c. 482r/87). E a Venezia in quegli stessi anni era stato incarcerato un “Frate di San Steffano bandito per novellante” (c. 413v /87).
Non era quindi facile per i menanti scrivere e rimanere a Roma, soprattutto all ’ indomani di un giro di vite nei loro confronti da parte del papa. Era più probabile che se ne stessero defilati per qualche tempo (almeno quelli che erano più sfacciatamente “pasquinanti”) in attesa di qualche assoluzione generale o di normale ripresa della quotidianità. A riguardo l ’ agente romano di casa Savoia scriveva così al suo duca il 14 maggio 1576: “Quanto agli avisi V. E. non si meravigli se non glie ne mando, perché la Menanteria è fallita, et tutti gli Menanti sono profughi; quando ritorneranno, che pur si spera la remissione, non mancarò di servirla” [49].
Dobbiamo riconoscere che nella seconda metà del Cinquecento furono ingiustamente equiparati i menanti scrittori di avvisi ai libellisti e diffamatori. Sarà poi il tempo a chiarire la loro distinzione e ai primi del Seicento si arriverà ad assegnare sempre più una giusta reputazione di professionalità agli avvisi e alle gazzette.
L ’ anonimato degli scrittori
Con queste premesse e con la presenza di tali bandi severissimi era pericoloso uscire allo scoperto e tanto più firmare le cronache degli avvisi, specie quelli che riportavano notizie poco lusinghiere al potere. E ne è ben cosciente uno di questi estensori, che, almeno una volta, si sfoga e svela qualcosa di sé e del suo difficile mestiere, tra l ’ altro pagato miseramente: “Sono gran cose quelle, che si dicono a Palazzo circa alle mutationi, et alterationi di persone, et de governi, ma perché questo Principe non ha rispetto ne a Cardinali, ne a coronati Ambasciatori, teme l ’ autore tanto maggiormente a dirle prima che siano successe, per fuggire lo scoglio della galera a posta di quattro baiocchi mal pagati et ben guadagnati, per questo essercito dello scrivere in simil genere” (f 294r/85).
Non possiamo nascondere un certo dispiacere per non poter conoscere coloro che si celano dietro l ’ anonimato, ma capiamo che tale espediente era dovuto a precise motivazioni.
Anzitutto era difficile mettere il proprio nome in fondo a fogli che riassumevano fatti disparati, ripresi da fonti diverse e ricucite in modo non sempre sequenziale e senza alcuna pretesa letteraria. Infatti ci troviamo di fronte ad una letteratura che potremmo chiamare di secondo ordine, anche se essa oggi ci intriga e ci affascina moltissimo per la sua forte carica storica e perché alcune relazioni sono vere pagine di letteratura minore, scritte con padronanza della lingua, con esperti giochi di parole, con citazioni di autori classici, rimandi a versetti biblici o a canoni giuridici che denotano una cultura che va oltre il semplice cercatore di notizie.
Ma soprattutto l ’ anonimato consentiva di riportare anche le notizie non sempre gradite all ’ establishment o comunque pericolose se esposte in prima persona. L ’ anonimato consentiva quella certa sincerità tipica delle pasquinate romane, anche se nei nostri avvisi esiste un autocontrollo che non va mai oltre il consentito. Una volta addirittura è lo stesso autore degli avvisi che, consapevole che i suoi fogli trattavano argomenti troppo delicati, scrive nel retro del foglio: “Non li lasciate vedere” (c. 594v/86).
In fondo i nostri menanti sono sempre buoni cristiani, nutrono rispetto e stima per il papa e giudicano “cattolicamente”, per cui la regina Elisabetta d ’ Inghilterra è quasi sempre bollata come “perfida eretica” e gli Ugonotti francesi sono considerati dei “ribelli” e così via.
Ciò non toglie però che negli avvisi sia presente un desiderio di sincerità e quel pizzico di libera sfrontatezza che spinge a guardare dentro gli avvenimenti con un certo atteggiamento critico. Già raccontare le cose come stavano, senza tanti filtri e compromessi, era un ’ operazione di onestà intellettuale, ed è piacevole leggere alcune notizie, anche piccanti, con quella sottile ironia tipicamente romana: “Il Duca di Sora, et il Marchese Altemps vanno pensando di volere per amore smontare da cavallo prima che siano astretti a smontare per forza” (c. 232v/85); “Il cavalier Paggiotto carcerato confessa di havere rubbato solamente 70 mila scudi nel carico che haveva in Ancona, maravigliandosi hora, che non avendo mai fatta altra professione che di rubbare a Principi, lo voglino castigare per tal virtù” (c. 251v/85); A proposito di una signora romana, famosa per i suoi facili amori, si legge: “Fra due giorni la signora Clelia Cesarini co ’ l figlio lasciarà vidua Roma per un pezzo del migliore che havesse in materia di Venere et d ’ amore, retirandosi ad un suo castello, lontano 40 miglia da gli occhi che l ’ amavano, a passare un caldo per trovarne un ’ altro” (c. 303v/85). Sul regno di Francia, diviso fra il Re e il Navarra, l ’ anonimo menante annota saggiamente: “Summa summarum è che questo Regno se ne va in pezzi, et che chi più potrà più n ’ havrà. Le acque si turbano e presto si pescherà” (c. 423v/85). Sui nobili e baroni del Regno di Napoli, ormai del tutto esautorati dal potere dal governo spagnolo, il cronista ironizza sui loro titoli nobiliari, descrivendoli come puro fumo che sale da un turibolo: “Essendo rimasto a i Principi di Regno horamai nient ’ altro che ’ l turibolo del fumo delli titoli, par loro cosa insopportabile che ’ l vento dell ’ invidia spagnola disperda anco questa loro prezzatissima suffomigatione” (c. 498v/85). Non si va per il sottile neppure con i cardinali: “Giunse l ’ altra sera con bella comitiva il Conte Alfonso da Nuvolara in casa del Cardinale, che più tosto si deve chiamare Oste, che Este” (c. 505r/85). A proposito di un progetto del papa, che la corte non vedeva di buon occhio, il cronista dice con finezza: “Videbimus (disse il cieco)” (c. 293v/85). Quando papa Sisto emise l ’ editto che tutti i vescovi titolari di diocesi dovevano ritornare nelle loro sedi e risiedervi stabilmente, il menante paragona la novità al diluvio universale: “Non fu tanta la confusione, et lo scompiglio fra i storditi Caldei alla nuova del futuro diluvio, quanto è quella di questa corte fra i deambulatori alla residenza” (c. 505r/85) e dà ragione al papa scrivendo: “costoro son più resistenti, che residenti” (c. 523r/85).
Un assoluto anonimato occorreva anche se si voleva essere sinceri contro i potentissimi Spagnoli presenti a Roma e che volevano circuire il papa nella sua difficile decisione sui problemi di Francia: “Fanno li zelanti della Religione Cattolica et per dimostratione di ciò operano con professione et minacce di essere scismatici, non volendo obedire al Vicario di Cristo... Mai, né li Neroni, né li Diocletiani, né quanti perseguitorno la Chiesa di Dio, si troverà che tentassero di convertire in loro l ’ autorità pontificia” (c. 107v/90).
È interessante notare come in tutti questi casi l ’ anonimo menante usa un linguaggio libero da ogni formalità, da ogni regola di galateo, da ogni schema letterario, da ogni sintassi formale, liberando la penna e collegandola con la satira pungente, con il sottile sarcasmo. Non per nulla nello stesso rione del Parione dove erano collegate le agenzie di tali scrittori vi era la famosa statua di Pasquino, con i suoi fogli irriverenti ma sinceri!
Ecco una bella pagina sul tema dell ’ anonimato del menante:
“Chi ci sfugge quasi sempre, anche nella lettura diligente di molti volumi d ’ “Avvisi”, è l ’ autore. Il suo incognito è un grave impedimento per che noi possiamo servirci con franchezza dei suoi scritti. Egli si avvolge in un certo mistero, rinunzia spesso alla propria personalità, nasconde le impressioni più nobili o spontanee, conoscendo troppo bene la forza maggiore del “luogo delle giustizie”, Tor di Nona ed altre vicinanze del terribile ponte Sant ’ Angelo... Con un autore così al buio la conversazione procede a stenti. Talvolta scatta in espressioni crude, mentre generalmente fa la cronaca degli scandali con aristocratica riserva, adoperando il latino là dove parla di argomenti umili o procaci. Punge da buon seguace dell ’ Aretino ed è di una crudeltà tale nel riferire le terrorizzanti scene del patibolo... La scrittura monotona degli “Avvisi”, per interi volumi, con la stessa calligrafia, non ci avverte mai dove la strada dei fattarelli sbucherà in un vicolo dove si scambiano silenziose pugnalate. Da un banchetto si passa ad una posterula Tiberina... Ma più verace, più realista, più forte autore diviene il “menante” dove non fa che accennare gli avvenimenti con poche parole. Così ci lascia sbalorditi che tali fatti fossero, per lui e per gli altri, la vita di ogni giorno” [50].
Alcuni mittenti
Conosciuti sono invece alcuni nomi dei mittenti degli avvisi (che però spesso sono anche scrittori), a cominciare da un certo Zanetin-Zanetino (o Zornetino) che scrive da Venezia direttamente ad Urbino: “data in nota dal Zanetin” (c. 210r), “Sulla nota del Zornetino venuta da Venezia” (c. 422r/85), “2 di Novembre 85. Nota del Zanetino” (c. 510v/85); “2 di Febraio. Nota del Zanettin. è venuta da Venetia” (c. 76r/86); “Di Venetia li 24 d ’ Ottobre 1587. Nota del Zanetin venuta da Venetia” (c. 451r/87); Nota del Zanetino venuta da Venetia” (c. 489r/87) [51].
Due volte compare il nome di tal Capello: “avviso regolare. Del Capello” (c. 279r/85), “Avvisj del Capello” (c. 436r/85).
Per ben 19 volte si hanno negli avvisi del 1576 le corrispondenze da Venezia e dalle Fiandre da parte dello spagnolo Cristoforo Salazar (“Del Sig. Salazar”, c. 108v/86; “Di mano del segretario Salazar” c. 173v/86; “Mi ha certifficato il signor Salazar...” c. 172r/86), che si firma come “segretario” del re di Spagna (“Del Segretario Salazar” (179v/86); “Il signor Christoforo Salazar, residente qua per il Re Cattolico”, c. 191r/87). È lui che compra, vaglia e spedisce le notizie. Spesso le scrive lui direttamente con una pessima grafia e in un italiano alquanto stentato e sgrammaticato, ma le sue notizie sono sempre interessanti e considerate dagli altri come veritiere e degne di considerazione: “Il signor Principe di Parma diede parte ad un Ministro regio residente in Colonia della presa di Grave, et da quello è stata scritta al signor Salazar et è quanto corre degno di consideratione” (c. 283v/86); “Non lo confirmando il Segretario Salazar, si ha per vano l ’ aviso” (c. 215v/86). Il Salazar morì a Venezia nel maggio del 1587 (“Morì sabbato il Salazar segretario di Sua Maestà Cattolica” c. 210v/87) e tutta la sua corrispondenza (che certamente aveva una notevole importanza) fu acquisita dalla Spagna: “Il Vagiano, Fiscale di Milano, venuto qua ha pigliato presso di sé tutte le scritture del segretario Salazar” (c. 234v/87). Il Salazar era talmente importante che fu subito rimpiazzato con un ambasciatore in piena regola presso la Serenissima (“Con la occasione della morte del segretario Salazar si tiene che Sua Maestà Cattolica sia per mandare qua un personaggio a risiedere per lei con titolo di Ambasciatore”, c. 254v/87).
Più volte compare il nome di un corriere, chiamato “lo Zoppo”, caratterizzando forse una sua malformazione fisica a scapito del vero nome: “Et s ’ aspetta il Zoppo con la verità di questo [fatto]” (c. 485r/85);“Di Francia non si può dir nulla di certo, poiché si sa, che non vengono altri corrieri, che li spediti dal Re... et perciò co ’ l Zoppo s ’ aspetta d ’ intenderne meglio la verità” (c. 54v/89); “Circa poi alle nuove di quel Regno pare non si possa dire nulla di certo fino alla venuta del Zoppo” (c. 180r/89); “Hora non è chi dubita più della morte del Re di Francia, perché il Zoppo venuto hiermatina ne portò confermatione con li particolari, che si diranno da basso” (c. 568r/89).
Altri nomi compaiono una sola volta: “Alenanti, Veterano” (c. 286v/85), “avvisi del Peruzzi” (c. 534r/85), “Le lettere del Rogatis ancora non si sono potute havere” (c. 55v/88), “Servitore affezionatissimo Camillo Bonelli” (c. 167r/88). Nel 1587 scrive dalla Spagna un certo Antonio Tassis (c. 508r/87), probabile antenato dell ’ omonimo Antonio de Tassis (1584-1651) combattente nell ’ esercito dei Paesi Bassi spagnoli contro gli Stati Generali, e che ebbe l ’ onore di un bel ritratto del van Dyck.
Nel 1589 troviamo che è Orazio Bandini (che viene chiamato anche Bardini o Barglini in c. 355r/89) a scrivere dalla Francia al Duca di Firenze: “A Sua Altezza. Dal signor Horatio Bandini” (c. 49v/89); “avvisi di Francia estratti di sua mano dalle sue lettere, dal signore Horatio Bandino” (c. 146v/89); “Di Vostra Signoria Illustrissima Horatio Bandini” (c. 257r/89); “Venuti dal Bandino doppo haver chiuso il mazzo” (c. 273r/89). Sarà proprio costui che invierà al Gran Duca le notizie della morte del re francese Enrico III: “Ha mandata la lettera originale di tal nuova scrittali dal Bardini suo Agente in Parigi” (c. 549r/89). Il Bandini era figlio del senatore e banchiere fiorentino Pierantonio Bandini. Suo fratello, Ottavio Bandini, fu inviato nel 1588 da Sisto V nelle Marche come governatore e sarà creato cardinale nel 1596 da papa Clemente VIII [52]. In un foglio che scrive da Lione nel novembre 1589 dopo la morte del re Enrico III, si vede che nutre una certa simpatia per il Navarra, e infatti un anonimo scrive dietro il foglio: “avvisi datemi dal Bandino, apassionato per quelli che seguitano Navarra” (c. 273r/89).
Una particolare presenza nei nostri avvisi è costituita, per ovvi motivi, dai mittenti da Roma al duca d ’ Urbino.
Alcuni si susseguono in questi anni (dal 1595 al 1590) in qualità di “Agenti”: il primo è Ambrogio Vignati (“Umilissimo et perpetuo Servitore Ambrogio Vignati”, 273r/85), o Bignati (“Al Serenissimo Signor Duca d ’ Urbino mio Signore. Ultimo di Luglio 1585. Dal Bignati”, c. 364r/85).
Una sola volta (c. 35r/86) troviamo un certo Ghirlinzoni (che sembra scriva dalla Francia, con una pessima grafia) e un tal Borgaruccio, il quale risiede anche lui a Venezia per il duca: “Signor Borgaruccio, segretario del Serenissimo d ’ Urbino” (c. 122r/87).
Altro nome che troviamo nella corrispondenza da Roma con il Duca d ’ Urbino è Fernando Torres. Si firma nella c. 558r/86: “Di Vostra Altezza Serenissima obligatissimo et affetionatissimo servo Don Ferdinando de Torres” e lo ripete nella c. 281v/87, dichiarandosi “Di Vostra Altezza Serenissima humilissimo et devotissimo Servo Don Fernando di Torres”. Nella c. 283v/87 il Torres specifica ancora il mittente dei suoi Avisi: “Al Serenissimo Signore il Duca di Urbino mio Signore. 1587. Di Roma. Il Torres”. Si nota in lui una buona cultura (riporta diverse citazioni in latino) e una certa dimestichezza con il mondo curiale romano: “Hieri fu da me il Governatore di Roma molte hore di parte de Nostro Signore dicendomi...” (c. 107r/87). Non è stato facile trascrivere le sue pagine a motivo della pessima grafia e dell ’ altrettanto pessimo italiano che denuncia la sua origine spagnola, come il precedente Salazar. Particolarità esclusiva del Torres è l ’ uso del linguaggio cifrato ogni volta che deve citare personaggi precisi come il Papa, l ’ Imperatore, i Re di Francia e di Spagna o i Cardinali ed altro ancora. La prima volta che si incontra questo tipo di scrittura criptata è alla c. 93v/87; seguiranno nello stesso anno 1587 altre lettere crittografate dello stesso Torres: cc. 107v, 133r-v, 182r, 198r, 281r. Sopra i numeri è stato poi aggiunto il nome decifrato, una volta che la lettera è venuta a destinazione. Paura di intercettazione della lettera da parte di una ipotetica censura? È probabile, anche perché il Torres spesso usa un linguaggio in piena libertà e azzarda una certa spregiudicatezza nei giudizi, forse poco adatta per quei tempi [53].
Nei primi mesi del 1586 troviamo a Roma come agente del duca Giuliano Uguccioni, che a marzo sarà sostituito e andrà a Venezia con lo stesso incarico: “è ritornato qui da Roma a risieder per il Serenissimo d ’ Urbino il signor Giuliano Uguccioni, et dimani anderà in Coleggio” (c. 152v/86).
E nel 1586 (il primo suo intervento lo troviamo nella corrispondenza del 19 luglio 1586, alla c. 330) a sostituire l ’ Uguccioni entra in scena un altro segretario, che ci accompagnerà per tutto l ’ intero pontificato sistino: il cavaliere Grazioso Graziosi, l ’ onnipresente negli avvisi, il segretario fidatissimo del duca urbinate e stimato dal papa, dai cardinali e da tutta la corte pontificia, presso la quale era già stato: “Il signor Gratioso, compitissimo Cavalliero, ritornato per il Duca d ’ Urbino a stare in questa Corte” (c. 6r/87). È talmente apprezzato da papa Sisto che addirittura nella difficile e lunga controversia della successione al trono francese dopo la morte di Enrico III, fa uso a Roma dei servizi del Graziosi: “Si è tenuta congregatione di tutti i Cardinali delle cose di Francia et trattato della Lega et capitoli che si stringono a furia, venendo del continuo adoprato in tutto questo maneggio il signor Gratioso, secretrario residente del Serenissimo di Urbino” (c. 104r/90).
Al duca d ’ Urbino il Graziosi offre la sua totale disponibilità: “All ’ illustre Padrone mio ossequentissimo” (c. 167v/88); “Riconosca la molta libertà ch ’ ella deve usare in comandarmi, et le bacio le mani. Affetionatissimo Servitore Grazioso Graziosi” (c. 263r/88); “All ’ Illustrissimo Signor mio osservantissimo il signor Gratioso Gratiosi” (c. 260v/89). E soprattutto assicura il duca (ed è quello che ci interessa di più) sulla veridicità delle notizie che invia e sulla serietà delle sue informazioni, perché le ha personalmente e criticamente vagliate: “Pigliarò buona informatione di questa materia, et scriverò poi a punto come la cosa starà essendo degno di sapersi bene” (c. 318r/87). Qualche volta si permette anche di dare consigli al duca urbinate, la qual cosa denota una certa familiarità e confidenza.
Non ho nessuna notizia circa la sua famiglia e il suo luogo d ’ origine, anche se la frase scritta al duca “Se verrà per la via nostra lo scriverò” sembra proprio indicare le Marche, e l ’ uso di alcune parole (come “magnare” per mangiare o “mò ’ ” per adesso) fanno congetturare che potrebbe essere nativo del sud delle Marche.
Per noi il Grazioso è un personaggio importantissimo, perché al foglio degli avvisi scritto dalle apposite agenzie romane o alle lettere di cardinali e ambasciatori, aggiunge postille, lunghi commenti personali, interi fogli aggiunti o “intermedi” (come li ho chiamati nella trascrizione), che invia settimanalmente al Duca tramite appositi corrieri, come si legge in un avviso del 17 giugno 1587: “Io ne scrivo per Mastro Giobata, Marescalco di Vostra Altezza, ch ’ è partito di qui questa mattina, et martedì sera sarà a Pesaro”.
Grazie a lui, gli avvisi romani diventano zeppi di glosse, annotazioni poste a margine del foglio o dentro il testo, tutte ben riconoscibili per la inconfondibile grafia, piccola, nervosa ma perfettamente leggibile, e sempre in prima persona. Con le sue interpolazioni e i suoi interventi il Graziosi arricchisce le notizie ufficiali, le sancisce come vere o false (“Questo è un Aviso rancido”), le corregge, le completa, le commenta con ironia, fornendoci in tal modo un interessante spaccato di notizie “dietro le quinte”. Spesso non è d ’ accordo con quanto scritto dalle agenzie dei menanti, che bolla qualche volta come mestieranti incapaci: “Non so che si voglia dire. Questi Poveracci mendicano l ’ occasione d ’ empire i fogli” (c. 271r/87); “Per ’ impire i fogli vogliono dire in somma quanto li viene alla bocca” (c. 275v/87); “Si dicono mille cosaccie ma tutte senza fondamento” (c. 453r/88); “Quello che costui dice non so donde se lo cavi” (c. 453r/88); “Hor questa si che sarà un ’ altra bella inventione” (c. 453r/88); “Questa è ben bella davero” (c. 453r/88); “Non finiranno più queste ciarlarie”(c. 453r/88).
La sua ironia è sempre pronta, come quando a Roma si facevano tanti nomi sui probabili nuovi cardinali per soli cinque posti vacanti: “Per cinque luochi soli vacanti che vi sono, faremo cinquecento Cardinali a poco a poco” (c. 461v/89).
Spesso il Graziosi tradisce sfacciatamente nei suoi giudizi simpatie e antipatie verso personaggi ecclesiastici e civili della Roma di quel momento, come quando in un avviso del 25 marzo 1589, che reca la notizia di un tale che era stato scelto come viceré in Sicilia, aggiunge stizzato: “Questo sì che mi farebbe gettare la beretta in Tevere, et dare questo Ambasciatore per un baiocco di castagne” (c. 171r/89). O come quando stronca con un giudizio sferzante la sua diffidenza verso i medici presenti in città: “Sono tanti valenti tutti questi Medici di Roma, che li meddicavano il mal di fegato et del polmone per un postema nella testa” (c. 368v/87).
Egli è sicuro di quanto scrive, consapevole di aver attinto a sicure fonti riservate e personali. Addirittura parla con il papa stesso (“Me lo disse il Papa anco a me”, c. 313r/89; “Questo medesimo l ’ ha detto con me ancora”, c. 33r/90), e conosce bene i cardinali, passeggia e mangia con loro, frequenta gli ambasciatori ai quali chiede informazioni di ultimo arrivo, si muove bene nella corte papale e fra i vari monsignori di curia e i camerieri papali. Quando legge negli avvisi qualche notizia falsa o solo parzialmente vera, polemizza mettendo a confronto la sua conoscenza dei fatti, acquisita nel contatto diretto delle fonti: “Costui sa dunque più di me, che parlo ogni hora a Sua Eccellenza et a tanti Cardinali” (c. 164r/90).
Fra tutti i cardinali è chiaro che il Graziosi è particolarmente collegato al cardinale parente del suo duca urbinate, cioè il cardinal Girolamo Della Rovere (Torino 1530 - Roma 1592) creato cardinale da papa Sisto il 16 novembre 1586, dopo la cui morte la sua ricca ed ampia biblioteca passò interamente al duca di Urbino. Sono diversi gli accenni alla diretta collaborazione con questo cardinale: “Sono molti giorni che l ’ Agente del Cardinale melo conferì a me in molta confidenza” (c. 276r/87); “Il signore Cardinale della Rovere delle cose sue proprie anco delle più domestiche, mi conferisce ogni minutia” (c. 23r/88); “Il Cardinale ha pure passeggiato hoggi un pezzo con me, che ho di nuovo trattato seco et soleccitato il negotio di Santo Spirito d ’ Ogobbio” (c. 259r/88); “Sono discorsi che sino tra il Cardinale della Rovere et me li facemmo fin da principio” (c. 270r/88); “Questo Foglio mi ha mandato il signore Cardinale della Rovere, quando io stava per chiudere il mazzo” (c. 505r/88); “Havendo io mandato a vedere questa scrittura al signor Cardinale della Rovere, come certo che prima non l ’ haveva veduta, Sua Signoria Illustrissima me l ’ ha rimandata corretta di sua mano” (c. 169v/89).
Ma continua è la relazione anche con gli altri cardinali e con gli ambasciatori residenti a Roma: “M ’ ha detto a me il signore Ambasciatore...” (c. 72r/88); “Non havendo io hauta comodità di vedere hieri né hoggi il Cardinale di Sans, ho parlato hoggi al tardi col signore Ambasciatore Cattolico, il quale m ’ ha detto...” (c. 23r/88); “Il signore Ambasciatore di Spagna, et Monsignor Minutio m ’ hanno detto che...” (c. 224r/88); “Questa sera io sono stato un pezzo col signor Ambasciatore et da nessuna parte vi è cosa alcuna di nuovo” (c. 256r/88); “A me l ’ ha detto il signore Ambasciatore Cattolico” (c. 346r/89); “Adesso di notte che io torno da Sua Eccellenza me l ’ ha detto a me per cosa certa per avviso del Duca di Terranova” (c. 401v/89).
In questa ricerca di notizie, anche di quelle segrete e tenute volutamente nascoste (“Costui ne sa molto più di me” 276r/86), usa tutti i modi per carpire informazioni, sfruttando perfino le... mogli di quelli che muovono le fila della storia. Ci fa sorridere infatti quando scrive, con un misto di ironia e di compiacenza: “Questo non lo dice un animo vivente, ma a me l ’ ha detto la moglie in gran segreto” (347r/86).
Cosa si legge negli avvisi
Di tutto. Eventi di cronaca che hanno fatto la storia d ’ Europa, resoconti di guerre e di calamità, vita quotidiana della città comprese le frivolezze e pettegolezzi di bassa lega. Simpatico ciò che scrive l ’ estensore di un avviso nel luglio del 1586, il quale sembra quasi scusarsi della notizia che sta per scrivere, consapevole della sua banalità, ma anche della necessità di doverla comunicare perché la gente ama sentire tali sciocchezze: “Per sodisfatione di chi si diletta di vedere gli fogli impiastiati d ’ ogni minuzia et non ad ’ altro fine, l ’ Auttore scrive che...” (c. 307r/86).
Gli avvisi riportano notizie di Roma, di Costantinopoli e il suo impero ottomano tramite Venezia [54], della Spagna di Filippo II, della Francia dei due Enrichi, dell ’ Inghilterra elisabettiana, di Praga e Vienna imperiali, delle polacche Cracovia e Varsavia, di Bruxelles per i Paesi Bassi e di tutti i piccoli Stati e principati italiani.
Ed è così che veniamo a sapere della peste in Europa e in particolare a Vienna con la fuga della corte imperiale a Praga; della tremenda carestia che in quegli anni affligge tutta l ’ Europa (“Di Savoia scrivono, che in Ginevra vi era gran carestia, com ’ anco per tutta la Savoia, morendo molte persone di fame” (c. 41v/90); delle malattie sorte come conseguenza della fame nel nord dell ’ Italia (“In Milano, ove è gran carestia, moreno molte genti di petecchie, et così in Piemonte, et in alcune parti di Lombardia” c. 175v/88) ma anche a Napoli e la conseguente rivolta popolare (“La fame, che ha la plebe di pane, ha fatto risolvere il popolo al numero di 20 mila a levar di casa l ’ officiale della Grascia, et squartarlo in mille pezzi” c. 229r/85); della inondazione del Naviglio a Milano (c. 522r/85) e dello straripamento del Lambro (c. 441r/87) e del Po (“S ’ intende che nel Cremasco la tempesta habbia desertato 24 possessioni del raccolto di quest ’ anno d ’ ogni cosa, et li Ferraresi, havendo tagliato un Argine sopra l ’ Adige, il Polesine sia andato la maggior parte sotto acque, et che la Brenta anch ’ essa uscita dal suo letto ha fatto grandissimi danni intorno quei confini” c. 293v/90); dell ’ Arno ingrossato con grandi danni a Firenze e dintorni per più di un milione d ’ oro (c. 184r/90); del freddo anomalo di Praga e d ’ intorni in pieno agosto (“Qui corse un fredo così grande, cosa molto strana e non vista ancora da queste parti tenendosi perciò le stuffe scaldate come d ’ hinverno” c. 420r/85); di una tempesta di grandine nel luglio del 1589 in un cantone svizzero, con un chicco di grandine misurato 8 libbre (circa tre chili); delli inondazioni in Croazia nel novembre 1589 (“In Crovatia per l ’ inondationi grandissime delle acque s ’ era sommerso il Castello di Capreniz con morte delli habitanti, non si vedendo vestigie di quel luogo se non la sommità del Campanile” c. 719v/89); di nove ebrei battezzati a San Giovanni in Laterano (c. 236v/86); del vaiolo che uccide 4 mila bambini a Brescia nell ’ aprile del 1588; di un fulmine che passa per le sale di un palazzo romano fracassando mobili e quadri (c. 293v/90); delle interminabili e sanguinose guerre di Fiandra con le drammatiche ricostruzioni di battaglie (come quella al c. 544v/85 fra l ’ esercito cattolico e quello ugonotto, o la battaglia di Ternier fra Savoia e Ginevra al c. 386r/89) spesso raccontate in prima persona (c. 491r /87; 422r/89; c. 386r/89: “et è stato cosa bellissima da vedere”); dei lunghi assedi, distruzioni, capitolazioni, movimenti di eserciti nella guerra di Fiandra; dell ’ elezione del nuovo Doge di Venezia; dell ’ interminabile guerra dell ’ impero ottomano con i Persiani; dell ’ elettore Ernesto vescovo di Colonia in contrasto con il suo predecessore; delle ataviche inimicizie fra Filippo di Spagna e Elisabetta d ’ Inghilterra; delle imprese strabilianti del corsaro Drake (cc. 201r-207v/87); della morte del re di Polonia e della travagliata elezione del nuovo re; della potenza silenziosa ma vigile di Malta; delle ingarbugliate vicende del reame di Francia alle prese con gli Ugonotti di Navarra; della condanna al rogo di un vecchio di 80 anni, “per esseri dato al diavolo”; di strane visioni prese per vere dal popolo... Abbiamo insomma una fotografia dell ’ Europa di fine Cinquecento, scattata da occhi attenti e scritta da penne abbastanza libere (perché anonime), risultando per questo una storia ancora più preziosa.
Spesso su uno stesso argomento vengono riportate tutte le voci in campo, anche quelle ferocemente in contrasto fra loro, come nel caso della presa del marchesato di Saluzzo da parte del duca torinese di Savoia, avvenuto nell ’ ottobre 1588: prima si riporta uno scritto savoiardo entusiasta ed elogiativo dell ’ impresa, mentre poi si fa seguire una feroce stroncatura filofrancese (cc. 527r-530r/88).
Ma gli avvisi ci riportano anche notizie dai mondi lontani dall ’ Europa, dalle “Indie” americane e asiatiche. E fa una certa meraviglia leggere la lunga lista dei prodotti esotici e dagli strani nomi, provenienti dal nuovo mondo americano e approdati a Lisbona nell ’ ottobre del 1587: “Dall ’ Isola di San Dominico 200 mila casse di Zuccari, 22 mila cassoni di Zenzero, 150 casse di Verzino, 400 mila quintali di legno santo, 50 quintali di salsaperiglia, 48 quintali di Cassia in Canela, 350 migliara di Cremese, 64 migliara di Gorroni, et 3 barili di Aghi. Portata dalle navi San Tomè, et Concettione giunte in Lisbona dalle Indie di Portogallo 12368 cantarà di peppe, 610 di Endego, 940 di Canella, 286 di Garofali, 20 di Macis, 30 di Noci Muschiate, 13 di Zenzero secco, 87 di Zenzero in conserva, 68 di Belzuino, 8 di Calangà, 180 di Ebano, 8 di Buraso, 70 di legno china, 26 di cora rossa, 15 di Cera, 2 di Marabolani secchi, 5 di Allacheche, 2 di spiconardo, 394 di Busios, 5888 caratti di Muschio” (c. 463r/87).
Altre notizie sono molto interessanti perché aggiungono particolari ai grandi fatti storici, spesso riportati nei libri di storia in forma asettica. Un esempio fra tutti. Nel 1590 Papa Sisto V riuscì a voltare la cupola di S. Pietro dopo un lungo periodo di costruzione, a cominciare il progetto di Michelangelo degli anni 1554-1555. Il tutto fu completato il 15 maggio 1590. Ebbene negli avvisi troviamo la descrizione fresca e vivida dell ’ avvenimento, della “trasmissione in diretta” con i particolari dell ’ avvenimento: “Lunedì matina nella chiesa di San Pietro fu cantata da un Canonico messa solenne, et da poi posta l ’ ultima pietra nella cuppola di quella Basilica con molta allegrezza et tiri d ’ artiglieria, et al medesimo tempo il Senato Romano per una sì grand ’ opra nella chiesa del Principe degli Apostoli, Advocato di questa Città, fece altre allegrezze, et intervenne ad una messa solenne cantata in Araceli da un Vescovo, dove fu recitato un sermone, narrando tutte le gran fabriche, strade et altre opre gloriose di Sisto V, et in specie questa della cuppula, et per tutto quel giorno furono fatte le allegrezze con strepiti di artiglieria, fuochi et luminari nel proprio Palazzo di Campidoglio, con larghissime elemosine di pane, et ne mandaro anco à molti luoghi pij di Roma” (c. 245r/90).
Per la storia della moda potrebbe interessare la descrizione dei sontuosi abiti da cerimonia sfoggiati da vari personaggi in una udienza ufficiale avuta davanti al papa ai primi di settembre del 1586: “I vestiti a livrea di questo cortesissimo Duca di Luccemburgo erano principalmente 25 gentilhuomini suoi con ferraioli di veletta negra di seta, et di calze et giupponi di raso negro con catenoni al collo di 500 scudi l ’ uno, oltre ad altri vestiti fatti loro da Sua Eccellenza per l ’ ingresso in Roma. 12 staffieri con cappe di rascia fina pavonazza listata da fascioni di velluto negro et guarnite di lunghe trine d ’ oro, delle quali anco a spesse guarnitioni erano i loro giupponi, et calzoni di raso pavonazzo ricco, con barrette di velluto pavonazzo ornate di piume a livrea, et di treccie ricche d ’ oro, 4 paggi et dui lacchè con capotti di tela d ’ oro in campo pavonazzo foderati di velluto ad opra dell ’ istesso colore co ’ l fondo d ’ argento, con i calzoni et giupponi dell ’ istessa tela d ’ oro con berrette di velluto in concerto gioiellate, et il Duca con tante gioie per guarnigione de suoi ricchi habiti, che pareva un contone della flotta del Perù” (c. 445r/86) o i vestiti dei paggi dell ’ ambasciatore imperiale a Roma nel novembre del 1589: “Ha formata casa et corte condecente al suo grado con 10 staffieri et 4 paggi, vestiti con calzoni, colletti, cappelli et berrette di velluto negro, con cappe di panno bandate del medesimo velluto et trine pur negre, li zupponi di raso, et alle berrette et cappelli trine d ’ oro con piume bianche, rosse et negre per sbiascio” (c. 715r/89).
Non mancano notizie del tutto inutili, come la descrizione di una carrozza fabbricata in Polonia “con alcune commodità straordinarie, et da potervesi cucinare per viaggio” (c. 403v/89), o la corrispondenza da Napoli del 2 agosto che si sofferma esclusivamente su un ballo fra nobili e sugli screzi fra due di loro per la mancanza di sedie nella sala (ff. 365r-v/85), o sui costosissimi regali che il re di Francia invia alla duchessa di Savoia (c. 486v/85), o al “banchetto sontuosissimo” preparato a Venezia dal procuratore Grimani per più di 300 persone e con più di 40 portate (c. 63r/89), o sulle dicerie popolari di fatti misteriosi accaduti qua e là e che incutono timore presso il popolo, come la nuvola nera che inghiotte in mezzo a fulmini un teatrante che mimava sacrilegamente una messa ( c. 270r/86), o come l ’ uomo “di mala conscienza” il cui corpo scompare all ’ improvviso dopo la sua morte (c. 175v/88), o la pioggia di sangue gelato e il suonare misterioso di tutte le campane in una città della Svezia (c. 189r/88).
Onestamente le notizie più stucchevoli sono quelle che trattano della vita giornaliera di cardinali, o di principi e nobili, dei loro matrimoni e i loro litigi: d ’ altronde erano queste le realtà che vivacizzavano la non sempre entusiasmante vita quotidiana e davano materiale di pettegolezzi al popolo, proprio come oggi. A Roma infatti si sa tutto degli arrivi e delle partenze dei cardinali, dei loro spostamenti, delle accoglienze nelle ville (soprattutto quella d ’ Este a Tivoli), dei regali che si fanno fra loro, dei maneggi per ottenere benefici o farli ottenere per gli amici, della loro salute (soprattutto la gotta)... Naturalmente si sa tutto anche degli ambasciatori dei vari regni e principati europei residenti a Roma, dei loro avvicendamenti, delle udienze avute dal papa, delle tensioni fra loro, delle feste che programmavano e dei pranzi luculliani che preparavano. A questo riguardo è semplicemente stupefacente il “rinfrescamento” che il vice re di Napoli preparò per il papa a Terracina durante un viaggio pontificio: “cioè 10 bovi, cento castrati, altrettante vitelle, et di tutti gli altri animali simili quadrupedi cento d ’ ogni sorte vivi, et così de bipedi tanto silvestri, come domestici, volatili di tutte le specie, casse de mostaccioli, confetture, et varie sorti di paste et delicature Napolitane, cere, confettioni, vini preciosi, et uno studiolo di ebano finito d ’ oro, et dentro pieno di cose pretiose, guanti, ambre, profumi, muschi, et simili” (c. 658r/89).
Senza dubbio è più interessante il riporto della cronaca di vita quotidiana del popolo, veri scampoli di storia vissuta, pezzi di ferialità di quella Roma di fine Cinquecento, spumeggiante, vivace e casciarona, animata dalle undici “arti” che formavano la base popolare: “che sono Merciari, Fornari, Macellari, Hosti, Pizzicaroli, Vermicellari, Candelottari, Pescivendoli, Pollaroli, Fruttaroli, et Hortolani” (c. 418r/88).
E così veniamo a sapere della donna che ritrova casualmente la refurtiva rubata ad un ambasciatore (c. 252r/85), o di un incidente nell ’ abbeveratoio sul Tevere (“c. 367/85), o di un grossissimo temporale estivo con fulmini (c. 454r), o di un affogamento di una monaca che si era buttata in una fontana per rinfrescarsi (c. 378r/85), o di un fulmine caduto su un campanile che aveva ammazzato alcuni preti, o dei vari incendi così frequenti in quei secoli fra le case di legno (c. 550r/89), o dei morti ed incidenti causati dai botti e fuochi pirotecnici nel maggio 1590 (c. 243v e 249r/90).
Non mancano riporti di cronaca nera, come il suicidio di una donna che si getta dal balcone del Campidoglio perché non aveva ottenuto la grazia della vita per il marito e il figlio (c. 538r/85).
Si riportano anche le debolezze del popolo, come il vizio delle scommesse, le paure ancestrali della gente che si preoccupa di visioni “celesti”, come una cometa o particolari giochi di luce in cielo.
Drammatico è il resoconto dello straripamento del Tevere nei primi giorni di novembre del 1589: “Il Tevere questa settimana è gonfiato tanto per le continue pioggie, che ha allagato per molti luoghi di Roma, et quasi arrivato in Banchi con rovina di molte case, et in particolare a Ripetta, et di diversi edificij, molini, morte di prigioni poveri nelle carceri à piano di Torre di Nona, et di più anime per Prati et per altri luoghi bassi dentro et fuori della Città, oltre i bestiami, et empito gran numero di cantine et massime d ’ Osti per tutto il Rione di Ponte, et parti confinanti co ’ l fiume, portando via molte botti di vino che erano per le vigne, et finalmente fatto danni fin nelli pascoli et sementati per più di 100 mila scudi...” (c. 683r/89).
Un tocco di sorriso viene al cronista (e anche a noi) nel riportare l ’ arresto di un bandito e l ’ originale legatura usata da uno sbirro: “Martedì mattina alla Madonna de Monti un birro pigliò un bandito et lo condusse in Campidoglio, havendolo legato con le legazze delle calze per non haver fune” (c. 419r/85). O anche nel leggere di un uomo talmente forte che “con le spalle s ’ oppone et ferma un cavallo che carca a tutta corsa, rompe ogni duro sasso con un pugno, piega ogni ferro con le mani, passa un piatto di stagno con un dito, con i nodi di due dita piega a scartozzo un piatto d ’ argento, con dare di due dita facciata sopra una picca la spezza, impugna un grosso chiodo et con esso passa due tavoloni, né dalla forza di 6 huomini si lascia piegare un braccio” (c. 70v/86).
Particolarmente numerose le citazioni sui “Banchi”, [55] che avevano un grande potere economico, sociale e politico: “Banchi dice che...” (c. 686r/89); “L ’ opinione de Banchi da certe sue ragioni et segnali è che...” (c. 691r/89); “La stravaganza delle scommesse, essendo hoggi il maggior negotio che corra nella Corte, avisa come Banchi (il quale fa i Papi et i Cardinali) dice che...” (c. 721r/89).
Ai Banchi ricorreva di continuo tutta Roma, quella curiale, quella nobile e quella popolana, i primi due soprattutto per i loro traffici in denaro, l ’ altra per l ’ abitudine alle scommesse. Si scommetteva su tutto: sulla eventualità di un matrimonio, sui prossimi cardinali, sui cardinali probabili papi, sulla salute del papa, sulla durata del suo pontificato, sulla conclusione di una guerra, sull ’ uscita di un decreto o meno... Nelle loro scommesse i romani riflettevano i loro desideri e le loro ansie, non ultime le beghe delle potenti famiglie romane, per cui una innocente scommessa fatte ai Banchi sui cardinali papabili poteva diventare una occulta pressione di potere:“Essendo Pepoli su le scommesse de banchi ad 88, Loreno a 76, il Governatore di Roma ad 84, et il Patriarca Biondo a 45, havendosi di nuova gran speranza nel Orsino Vescovo di Spoleti, ma molto più nel Cesis Vescovo di Todi, et che i promovendi debbano essere cinque, ancorché sopra il quattro si diano 60 per cento” (c. 713v/89).
Questa delle scommesse sui cardinali era una vera ossessione romana e ogni anno si scrivono pagine intere di avvisi su questo argomento già dal mese di novembre fino alle nomine di dicembre, “Non si trattando d ’ altro negotio in Roma che di questo, che ha in un tratto fatto smarrire tutte l ’ altre novelle et occorrenze” (c. 587v/86). E non possiamo non immaginarci il sorriso tra l ’ ironico e il bonario di papa Sisto nel leggere ogni giorno le quotazioni fatte ai Banchi. In fondo sapeva che permettendole vi era una provvidenziale circolazione del denaro in città: “Nostro Signore prende piacere di vedere ogni sera la lista de Banchi sopra li Cardinali in herba promovendi a Natale prossimo... et Sua Santità havrebbe un pezzo fa prohibito queste scommesse, se non fosse stato il rispetto d ’ impoverire questa piazza, perché in tal caso il danaro correrebbe altrove” (c. 708r/89), anche perché conosceva la critica dei banchieri circa la sua volontà di bloccare in Castello tanto denaro per la Camera apostolica: “I denari che si mettono tuttavia a 100 mila scudi per volta in Castello hanno talmente impoverita questa piazza, che la pecunia che di qua girava con guadagno, si rimette hora con perdita, et dicono i mercanti, che se ’ l Papa non fa passeggiare per banchi almeno 100 mila scudi, che i traffichi loro passaranno male, come anco se non si rimedia all ’ accidia del pane per la morte del abondanza, crescerà il duolo maggiormente” (c. 565r/85)
Naturalmente le notizie non si fermano alla sola cronaca romana, anche se la fa da padrona, perché è abbondante anche la cronaca di altre città. Da Venezia, ad esempio, arrivano notizie sulle leggi emanate dal Senato, sulle condanne comminate dal Consiglio dei Dieci, sulla costruzione del nuovo ponte di Rialto (“Sabbato a sera si finì di serrar l ’ altra parte del Ponte di Rialto con grande allegrezza et strepito”: c. 308v/90), fino alla immancabile cronaca nera, come il ribaltamento di un barcone (“Un giorno di questa settimana s ’ è ribaltata una barca da Caorle che veniva a Venetia con molta gente che v ’ erano dentro”, c. 770v/89) o la terribile tempesta di vento nell ’ aprile del 1589, con tanti morti e rovina di barche: “Dicesi che li morti trovati sin ’ hora sommersi nell ’ acqua dall ’ horibil et spaventosa furia de venti conturbata il giovedì notte della settimana passata arrivi al numero de 200 et ammazzato di molto bestiame trovatosi in luoghi aperti, et malmenato cinque Vascelli grossi, che erano sopra Malamoccho si come altre infinite barche d ’ ogni sorte in queste lagune, non essendosi memoria da 50 anni in quà di così grande, et tremenda procella di mare” (c. 224v/89).
Gli avvisi e la grande storia
Gli avvisi costituiscono “una vera miniera, anche se assai spesso sovraccarica di materiale di scarso interesse” [56].
E in una miniera si trovano anche delle pepite d ’ oro, pur fra tanta roccia. E infatti gli avvisi nascondono notizie di particolare interesse storico. Ne cito solo alcune: la costruzione della nuova Roma voluta da papa Sisto riportata quasi momento per momento; la descrizione minuziosa dello scontro fra i giganti del mare fra la Spagna con la sua Armada Invencible e l ’ Inghilterra di Elisabetta I; la tragica uccisione del re Enrico III di Francia; le sfiancanti guerre nelle Fiandre fra spagnoli e olandesi e in Oriente fra turchi e persiani e altro ancora.
Per rimanere nell ’ analogia della miniera, qua e là affiorano negli avvisi luccichii dorati con notizie sfiziose che offrono un particolare piacere. Ne riporto solo tre
Viene citato il poeta Torquato Tasso: “Il Serenissimo di Ferrara ha concesso al Prencipe di Mantova il signor Torquato Tasso” (c. 324v/86).
Si annuncia la scoperta delle prime isole Filippine: “L ’ ultime di Spagna portano il certo scoprimento fatto ultimamente di 24 Isole dette le Filippine nelle parti del Giappon” (c. 33v/87).
Si parla del giovane San Luigi Gonzaga che a novembre del 1585 rinunciò alla sua primogenitura nel ducato per andare a Roma a farsi gesuita: “Lunedì mattina il signor Luigi Gonzaga, figlio primogenito del Marchese di Castiglione, di età di 18 anni, prese l ’ habito di Giesuito nella chiesa del Novitiato di quella Religione” (c. 546v/85).
La censura
Non tutto si sa e di non di tutto si può scrivere. Su molte questioni gli Stati mantengono uno stretto riserbo: “Il Duca di Nevers ha negotiato più volte segretamente con Sua Santità senza che si possa saper veramente il particolare” (c. 283v/85); “Questo mandare che fa il Serenissimo di Savoia a posta il Marchese di Este in Ispagna, non si penetra quello voglia significare” (c. 175v/88); “Era giunto un corriero di Spagna senza sapersi quello che porti” (c. 203r/88).
Certamente questa segretezza complicava la vita agli estensori delle notizie, che dovevano arrabattarsi in tutti i modi per scucire qualche informazione. Un vero smacco per questi segugi delle notizie!
A tutto ciò si univa una immancabile censura statale sulle notizie con veri e propri embarghi. Un esempio fu quello operato nel 1588 in occasione della Armata spagnola contro l ’ Inghilterra: non si voleva fossero divulgate notizie o troppo allarmanti o troppo entusiastiche, per cui alcune frasi degli avvisi o lunghi periodi o pagine intere sono cancellate con vistosi tratti di penna e il cronista commenta con molta saggezza: “Sopra di ciò si parla variamente secondo le passioni, onde tutto il resto si lascia nella penna per osservanza delle leggi” (c. 540r/88).
Sarebbe per noi davvero interessante conoscere la vera paternità dei tanti tratti di penna presenti sui fogli degli avvisi: chi è il “censore” di queste notizie cassate? a quale scopo? si tratta di una “censura” ufficiale? e perché le notizie non si cancellano del tutto ma si lasciano leggibili? il foglio così ridotto faceva forse parte di una prima “brutta copia” delle agenzie romane prima della stesura definitiva o sono cancellazioni effettuate sugli stessi fogli ufficiali? c ’ è forse la mano di qualche segretario zelante che vuole già aiutare il destinatario circa la selezione delle notizie da leggere? Troppe domande a cui è difficile dare una risposta esauriente. Comunque non è improbabile che a Roma (come altrove) lo scrittore dovesse sottoporre le notizie ad una specie di “revisore dei testi”, almeno per quelle notizie ritenute “ufficiali”.
Scrive l ’ Orbaan: “Per la parte politica sembra che vi dovesse essere una certa forma di controllo. Moltissimi “avvisi” hanno sull ’ ultima pagina dei quinterni spediti insieme, volta per volta, delle aggiunte, che in brevi termini affermano o contradicono parte del contenuto” [57].
Si legge in un avviso del settembre 1589: “Lo scrittore sabbato restò di mandare gli avisi al solito, perché fu preso insieme con un altro della medesima professione, et condotto in Torre di Nona, et levatogli tutte le scritture et avisi, di ordine di Monsignor Governatore, il quale dopo havere visto, che in detti avisi non era cosa alcuna scrupulosa, né contra alle santissime leggi di Nostro Signore li fece rilasciare gratis, et restituire gli avisi” (c. 593r/89).
A volte capita di avere due versioni differenti sulla stessa notizia: è passata la censura? Un esempio: sul famoso bandito Curcietto che aveva sequestrato un monsignore per mandarlo come portavoce presso i Cardinali abbiamo due diverse stesure: “Di riferire alli Cardinali, che sarà lui buon diffensore et servitore fedele d ’ ogni loro interesse, ma che di gratia avertischino di non far mai più un Papa, et non simile a questo” (89v/87); “Di riferire a Cardinali che sarà loro buon difensore et servitore fedele ad ’ ogni loro interesse” (97v/87). Nella seconda è saltato il riferimento al papa.
Credo che un vero intervento di censura sia alla c. 527/85, là dove delle undici righe sono state cancellate diverse parole e l ’ intero testo è reso incomprensibile, probabilmente per nascondere uno scandalo avvenuto alla corte dei Gonzaga a Mantova. Altra censura potrebbe essere nella c. 578v/85, dove si trovano due vistosi tratti di penna sopra nove righe che parlano della poca considerazione che il papa aveva verso un cardinale di curia. Ma negli avvisi si trovano molte altre di queste censure, che fanno cassare dalla penna le maldicenze gratuite, i pettegolezzi indelicati o, per pudore, certe notizie che producevano un certo fastidio come la seguente: “Si sta per fare giustitiare una madre et figliuolo, per il nefando connubio havuto insieme 7 anni continui” (c. 342v/86).
Si può anche ragionevolmente pensare che il menante si autocensurava con prudenza ed equilibrio, evitando saggiamente di riportare giudizi troppo sfavorevoli sul papa o sul governatore di Roma o su qualche nobile romano o su un principe italiano. In fondo, se voleva proprio sfogarsi, aveva ancora a disposizione Pasquino!
Il problema del falso
Le notizie false erano sempre in agguato. Da qui la necessità di dover vagliare le notizie che giungevano, tararle adeguatamente, porle a confronto con successivi riscontri, evitare il pericolo di interpolazioni arbitrarie.
In un avviso del 21 giugno 1589 scritto da Roma si parla chiaramente di “glossatori” male intenzionati, con il sospetto che costoro possano essere alcuni tedeschi protestanti presenti a Venezia o forse qualche infiltrato a Roma, se non addirittura nella stessa corte papale: “Co ’ l ritorno a Roma del Cardinale Aldrobandino di Polonia et di Germania, essendosi inteso che gli heretici di quelle parti in ricevere gli avisi di Roma per via di Venetia li glosano et vi aggiungono bugie et falsità sporchissime, et forsi che in Venetia si trovano di questi glosatori, si è ordinato qua in voce, che siano castigati severamente tutti coloro che prevaricaranno, ancorché da queste parti si sappia certo che non nasca il detto male, se però qualche bugia non venisse scritta da Oltramontani et Barbari interessati che dimorano in questa Corte secretamente” (c. 392v/89).
Un altro avviso di Venezia evidenzia il contrasto fra le notizie provenienti dal Portogallo: “In contrario di quanto si è detto et scritto che sotto Lisbona siano restati morti 4600 Inglesi dell ’ Armata nelle scaramuccie fatte da Spagnoli, si veggono lettere di quella Città scritte da Mercanti venetiani là residenti con aviso che non ve n ’ erano morti se non 15 o 20 sbandati” (c. 524v/89).
Sul tema dei falsi abbiamo tantissime testimonianze. Nel solo volume del 1585 vi sono almeno una ventina di accenni a notizie ritenute dubbie o del tutto false, e ben dieci notizie riportate come sicure dal menante, ma che poi sono date per completamente false nei fogli successivi. Alcuni esempi: la falsa morte di Giovanni Francesco Bonomi, vescovo di Vercelli, di cui il cronista riporta la diceria che fosse morto “annegato passando un fiume con tutta la sua famiglia” (c. 328v/85); la falsa notizia dell ’ uccisione del cardinale Salviati a Bologna (c. 421v/85); le false morti annunciate del vescovo di Camerino (c. 232v/85), del vescovo di Modena (c. 523v/85) e del duca di Sassonia (c. 360r/85).
E nel corso degli anni continua questa moda del falso, stigmatizzata dagli stessi menanti: “Si conosce essere inventione de Maligni la voce sparsa qua...” (c. 115r/88); “Qui in Casa capitano varij avisi, et alcuni sono veri, et altri alle volte sono falsi” (c. 166r/88); “Riesce favola fin qui la voce sparsa...” (c. 205v/88); “Quanto si dice è solamente discorso delle genti che parlano mossi dalla lor passione” (c. 574r/88); “Molti stanno duri a credere, tenendolo per aviso artificioso” (c. 59v/89); “Di queste cose non v ’ è avviso alcuno da credersi né stimarsi” (c. 391r/89); “È bugia espressa l ’ aviso sparso per Roma, che...” (c. 594r/89); “Si dice che... ma si lascia nella penna fino a migliore rincontro” (c. 162v/90).
E si leggono con un amaro sorriso alcune frasi scritte fra l ’ ironico e il rassegnato: “Non servendo ad altro l ’ avisarne, che per imbrattare la carta” (c. 105v/88); “Fra tanto crederà ogn ’ uno quello pare” (c. 239r/90).
Non era sempre facile vagliare la verità, a motivo della concreta difficoltà di valutare in poco tempo le notizie provenienti da aree lontanissime geograficamente. La congerie di voci, ipotesi, dicerie, supposizioni, fantasie formavano un potpourri inestricabile. A volte le notizie giungevano solo oralmente, e prima ancora che potesse arrivare uno scritto, confermatorio o meno, passava diverso tempo. Una lettera da Costantinopoli a Venezia poteva impiegare anche un mese e più, secondo la velocità della nave: “Di Venetia gli 12 settembre 87. Le lettere di Constantinopoli che gionsero sabbato furono delli 5 di Agosto...” (c. 393r/87).
Anche sui latori delle notizie non poteva applicarsi una identica fiducia, perché un conto era la notizia giunta dalla corte di Praga e un conto la narrazione di un fatto riportato da un pellegrino di passaggio.
A ciò si aggiungeva la difficoltà di vagliare la verità quando la notizia era stata manipolata ad arte, o per volontà esplicita di calunnia verso personaggi scomodi, o per l ’ esagerata difesa di una parte per motivi politici.
Che fiducia dare, ad esempio, ai racconti di fatti di guerra, quando i resoconti di una azione militare e il numero dei morti divergevano secondo la provenienza da uno o dall ’ altro dei campi opposti di battaglia? È la fonte stessa della notizia che manipola in partenza la verità, per cui i vincitori sfornano numeri da capogiro, mentre i perdenti ridimensionano il tutto. Ad esempio nel maggio 1589 la lega cattolica subì uno smacco militare dal re Enrico III, subito esaltato dai suoi seguaci: “La rotta fu di 3 mila huomini” (c. 406v/89). Ma la lega presentò la sconfitta come una piccola ed ininfluente scaramuccia, anzi una “perdita solo dell ’ artiglieria, et de pochi de suoi” (c. 398v/89). In questo caso anche i morti entravano al servizio della propaganda politica.
Il menante del Parione o di Rialto che si trovava fra le mani dispacci del genere necessariamente era costretto a “fare la tara”, e non mancava di dispensare frecciate e giudizi pungenti: “Avisi di Francia dati da parteggiano del Re. Ma di tutto quello che qui et nell ’ altro foglio del novellante si contiene a favor di Sua Maestà li contrarij o niegano, o referiscono in contrario, ma tutti però si confondono in modo che nessuno, fra l ’ altre cose, si può intendere” (c. 407v/89); “A questi della Unione di Francia bisogna dare la tara, o calo de gli avisi che spargono di quel Regno, favorevoli dalla parte loro, la maggior parte falsi et colorati, non meno di quello facciano i Navaristi” (c. 198v/90); “Ancorché si sappia che bisogni dar tara dell ’ una et l ’ altra parte delle fattioni di Francia, nondimento si sa per cosa certa...” (c. 201v/90); “Benché tal dubio possa non dalla verità derivare, ma dalla malignità di quelli che così vorriano che fosse” (c. 444r/86); “Spargendosi da gli interessati nuove false, secondo le passioni di ciascuno” (c. 295r/89); “Come pare che faccino ogni qual volta giudicano che possa portare reputatione o servitio alle cose loro” (c. 780r/89).
In un avviso del dicembre 1587 lo stesso menante ammette con sincerità che le notizie venute dalla Francia, addirittura in tre successivi dispacci, sono false e create per propaganda, per cui non rimane che dar credito - dice lo stesso scrittore - alle notizie che provengono da Venezia, ritenute più vere perché più neutrali: “I tre continuati spacci, si tralasciano, rimettendosi a quello che più veridicamente ne scriveranno di Venetia” (c. 543v/87) [58].
Nel febbraio del 1589 circolò per tutta Europa le falsa notizia che il re francese Enrico III era stato pugnalato da un paggio. La tragedia della sua uccisione in effetti avverrà, ma solo cinque mesi dopo! Eppure, pur conoscendo la falsità della notizia il menante la riporta ugualmente, quasi per stigmatizzare e condannare quel “si dice” continuo, che in fondo danneggiava anche il suo mestiere, togliendogli la certezza di notizie vere da offrire ai lettori: “Ancorché si sappia certo essere falso l ’ aviso sparso per Roma della morte del Re di Francia di pugnalate, dateli in Camera da un paggio, nondimeno ne scrivono per “si dice” da Venetia, Genova, et Milano et con lettere da Lione da mercanti delli 24 del passato” (c. 59v/89).
Forse la bufala maggiore fu certamente quella proveniente da Milano il 7 agosto 1589 circa la pace fatta tra Filippo II di Spagna e la Regina Elisabetta d ’ Inghilterra e che addirittura costei avrebbe risarcito la Spagna delle spese sostenute nella sconfitta della Invincibile Armata: “Di Milano dicono la pace fatta tra il Re Cattolico et Inghilterra, et per ciò si sono spediti Corrieri a Fiorenza, Pisa et alla Spetie a fermar li soldati Tedeschi et Italiani ch ’ andavano in Portogallo, rifacendo quella Regina tutte le spese dell ’ armata a Sua Maestà” (c. 523r/89). Non si capisce se ci voleva più fantasia nello scrivere una notizia del genere o nell ’ accettarla come vera!
Gli agenti delle varie corti che inviavano le notizie acquistate dai menanti sapevano benissimo che potevano avere fra le mani notizie inesatte e addirittura false, ma accettavano quello che si trovava in circolazione. Così infatti si scusava con il suo duca savoiardo l ’ agente romano: “Vostra Eccellenza mi perdoni se alle volte gli scrivesse qualche bugia, poiché si vende per quanto si compra, e niente più” [59].
Ma le notizie false potevano venire non solo (e incolpevolmente) dai menanti, ma anche da persone insospettabili per cui durissimo è il giudizio che il Graziosi scrive nel maggio 1588 a proposito di una notizia fornita addirittura dall ’ ambasciatore spagnolo che si era fidato della soffiata di... un oste: “Così è: et anco i Savij fanno alle volte delle menchionerie” (c. 278r/88).
È bello pensare però che almeno qualcuno si diede da fare per smentire quanto avevano scritto i “menanti” su di lui: “È tornato a Roma Pietro Antonio, già sostituto della Dataria del Cardinale San Stefano, per mentire i menanti, ch ’ egli, come scrissero, non fugì di qua, et per mostrare a Palazzo la sua innocenza et integrità” (f. 356r).
“Così è, se vi pare”. Il famoso motto pirandelliano poteva applicarsi quasi ad ogni foglio d ’ avviso. Ma almeno una volta un simpatico menante scrisse con schiettezza su un suo foglio del settembre 1588: “Foglio d ’ avisi non finti, ma veri” (c. 475r/88), come a dire: non abbiate paura; di questo avviso vi potete fidare!
Quanto credito meritano gli avvisi?
“Tutti gli studiosi che hanno fatto ricorso agli Avvisi manoscritti concordano nell ’ attribuire a queste fonti un notevole valore documentario” [60]. E aggiunge il D ’ Onofrio: “Sulla attendibilità degli Avvisi non ci sono dubbi: oltre che pienamente riconosciuta dalla critica moderna, anche nel Cinquecento, nonostante qualche espressione di scherno o di disprezzo, altrimenti non si spiegherebbe il perché tutte le Corti (e poi anche i privati, in quanto gli avvisi erano venduti per le strade) ci tenessero tanto ad averne. Anche oggi, del resto, tutti mostriamo sempre, per vezzo o per convinzione, una qualche diffidenza verso i giornali: però tutti li leggiamo ugualmente” [61].
Abbiamo un vocabolario molto vario usato nella presentazione della notizia, quasi a guidare il lettore nel tipo di fiducia da dare alla notizia scritta: “dicesi per cosa certa”, “parlasi sottovoce”, “si dice anco per quanto si va scoprendo”, “va intorno un bisbiglio”, “si dice publicamente”, “per quanto si scandaglia”, “è ben accertato per vero”, “confermasi, che”. È chiaro, ad esempio, che la notizia perde di autorevolezza ed importanza se si scrive: “Qui corre voce sparsa da un porta lettere, alla quale non si presta fede” (c. 289v); “Vien scritto qua che sia morto il Moscovito ma l ’ aviso porta seco così poco credito, et circostanze che non le prestiamo, si può dire, alcuna fede” (c. 299r); “Corre voce ma non si trova il fondamento” (c. 316v); “Poco, o niun credito ha la voce corsa da otto giorni in qua...” (c. 11r/88); “Pare duro a credere, anzi si tiene per bugia l ’ aviso portato da...” (511r/88); “Si parla inoltre (ma senza fondamento)...” (c. 66r/89).
Tutto ciò ci rassicura circa l ’ affidabilità delle notizie, anche perché gli stessi menanti non sono teneri con le “ciancie”: “Si dicono molte ciancie, ma di poca apparente verità” (368r/87); “Sopra tal accidente [Roma] fa discorsi et fonda i pareri su quello che a lei pare ragionevole, ma il tacere in tal caso è molto sano” (c. 2r/86).
Con tutta onestà (direi professionale) l ’ estensore delle notizie avverte quando è consapevole della non completa fondatezza delle stesse notizie e avverte il lettore della necessità di un maggiore approfondimento: “S ’ aspetta però di ciò maggior certezza” (c. 322r, 326r); “Non sapendosi di nulla di certo, si lascia di scriverne finché il tempo ne sortisca l ’ effetto” (c. 35r/88).
Un evidente segnale di serietà e professionalità lo si trova nel caso di una rettifica fatta dallo stesso estensore della cronaca: “M ’ è venuto un gran rumore alle spalle per un ’ equivoco fatto nella precedente cronaca d ’ una parola nel principio dell ’ ultimo capitolo, che voleva dir Napoletano, et diceva Romano” (c. 243r).
Certamente allo scrittore di avvisi non si poteva togliere il gusto del raccontare un po ’ sopra le righe, con il suo furfantesco modo di mescolare a volte verità e dicerie. Era il suo mestiere e il far colpo era necessario per vendere! [62] Ma fa piacere leggere frasi del genere: “Si ben non siano certe et vere le cose che si dicono, il sentirle non nuoce, et perciò ne racconterò alcune” (c. 12v/89); Si lascia nella penna quel che di più si potrebbe dire sopra questo particolare” (c. 84v/88); “Consideri Vostra Altezza che confusione noi stessi facciamo” (232v/87).
La spedizione e la difficile vita dei corrieri
In tutte le numerose pagine degli avvisi che ho trascritto ho trovato due soli nomi di corrieri. In una cronaca dettagliata sui primi giorni della battaglia fra le armate navali spagnola e inglese nell ’ agosto 1588 si legge: “Frocuson corriero arrivò circa l ’ otto hore, portando lettere...” (c. 477v/88). Altro nome di un corriero strappato all ’ anonimato è quello di tale Strozzi in un avviso dell ’ aprile 1589: “Il signor corriero Strozzi ha detto questa mattina haver lettere da Torsi de 12 d ’ aprile con aviso che...” (c. 257r/89).
Di tanti altri migliaia di corrieri non sappiano neppure i loro nomi, ma conosciamo solo la difficilissima vita che conducevano.
Una fitta rete di “huomini espressi” [63], recavano “le più fresche lettere”, a cavallo o in diligenza o in nave [64] fino ad elaborare un complesso reticolo di “vie postali” man mano sempre più perfetto e veloce (relativamente a quei tempi), gestito da altre agenzie specializzate di stampo manageriale, naturalmente sempre sotto il controllo attento dello stato, che facevano uso delle “poste” (per cui si parla spesso di “notizie giunte à posta”), cioè luoghi specifici che offrivano la possibilità del cambio dei cavalli nelle varie stazioni collocate lungo le strade di scorrimento, a distanze regolari di circa 10-15 chilometri.
Si è detto giustamente che la posta e gli avvisi sono strettamente connessi fra loro: “Queste due istituzioni - la Posta e il Giornalismo - hanno così stretti vincoli, in quanto l ’ uno trova nell ’ altra il suo alimento e la sua possibilità di sviluppo” [65].
Le poste furono organizzate già dalla fine del Trecento da imprenditori privati o dagli stessi Stati, per consentire un servizio di comunicazione politica, sociale e commerciale. Il modello andò man mano sviluppandosi e perfezionandosi fino ad arrivare nel Cinquecento ad un sistema perfettamente collaudato, che portò ad una maggiore regolarizzazione dei tempi di percorrenza. Ed è proprio per la regolarità di tale servizio che si poté di conseguenza regolarizzare la stesura e l ’ invio dei fogli degli avvisi, che venivano redatti in concomitanza delle assicurate spedizioni, perdendo così la fisionomia della occasionalità ed estemporaneità.
Naturalmente le curie, le ambasciate, le segreterie dei prìncipi e anche i mercanti più rinomati avevano le loro reti di collegamento e i loro corrieri [66].
Al corriere che lavorava da solo si affiancava il pubblico “procaccio”, cioè la diligenza che trasportava le persone, il denaro, le stoffe e, naturalmente, il pacco delle lettere. Nei nostri avvisi si nomina quasi esclusivamente il procaccio utilizzato sulla direttrice Roma-Napoli lungo la via Appia, che naturalmente aveva un tempo di percorrenza maggiore del singolo corriere a cavallo. Nel 1586 fu proprio Sisto V che assicurò alla Camera apostolica il procaccio napoletano settimanale, servizio che fino allora dipendeva dalla Spagna.
E se non arrivavano i corrieri non arrivavano le notizie. Si legge in un avviso da Colonia: “Essendo il Portalettere con l ’ ordinario d ’ Anversa di questa settimana stato spogliato otto leghe di qua dalla guardia del Castello di Bleijbecho, non habbiamo perciò inteso cosa alcuna di quelle parti” (c. 177v/89). E dalla Spagna si scrive con una certa apprensione “che non si haveva nuova veruna di tre corrieri estrordinarii spediti ultimamente da Roma per Spagna” (c. 607r/89). Anche dalla Francia: “Di Francia non essendo comparso l ’ ordinario, né estraordinario alcuno, non si sa dir nulla di nuovo” (c. 721v/89).
Vari erano i pericoli che doveva affrontare costantemente un corriere.
Anzitutto le strade. Nell ’ Italia del Cinquecento le vie di comunicazione non si presentavano nel migliore dei modi, dal momento che la frammentazione politica ostacolava la realizzazione di un organico sistema di comunicazioni stradali. Il fondo stradale, quando esisteva, non aveva robustezza e omogeneità ed era più adatto al cammino pedestre o del cavallo che alle carrozze. In tali condizioni il traffico delle merci era ridotto e le strade venivano utilizzate per i viaggi indispensabili. Inoltre mancavano i ponti e i fiumi si passavano a guado o col traghetto, con grande pericolo dei passeggeri, compresi i corrieri: “Il corriero di Venetia partito ultimamente di qua per quella volta si è annegato a Pontecentesimo (c. 569v/89). Sisto V prese a cuore il riassetto viario dello Stato pontificio e, secondo il parere degli storici, “se il pontificato di Sisto V fosse durato più a lungo, probabilmente le strade sarebbero state riassettate” [67].
L ’ altra grave difficoltà per un corriere era il brigantaggio che infestava l ’ Europa intera.
Gli avvisi riportano infinite testimonianze di “svaligiamenti” di corrieri, con la perdita dei dispacci, oltre che del denaro.
“Al Corriero di Brescia, che doveva venire martedì, fu tolto il giorno avanti presso Castelnovo il cavallo, et la valigia con li fagotti di Bergamo et anco di Brescia” (c. 135r/86); “è stato svalliggiato alle Fornase il Corriero passato che andava a Roma, legato a un arbore, con bottino di circa ducati 4 mila” (c. 532v/86); “Il Corriero ordinario di Venetia giunto qua giovedì è stato svaligiato presso Ravenna da alcuni stradaroli, et levatigli 1700 scudi contanti, oltre alle robbe, et gioie, sì come si dice essere stato svaligiato anco il corriero, che da Milano passava a Venetia” (c. 465r/87); “Il Procaccio di Napoli che veniva a Roma è stato svaligiato da 13 fuorusciti fra i confini del Regno et di questo Stato, con danno di 2 mila scudi” (c. 127r/87); “Li corrieri di Bologna et Firenza, che partirno di qua hoggi 15 giorni, furono svaliggiati, et a quello di Firenza le fu tolto 8 mila scudi” (c. 101r/88); “Un corriero estraordinario di Spagna è stato svaligiato a confini di Francia et levatigli li spacci” (c. 266v/88); “Di Genova scrivono che le fuste de Corsari di Provenza havevano rubbato un spaccio del Duca di Savoia, che andava al Re Cattolico” (c. 382v/89); “La settimana passata fu svaliggiato il corriero di Milano al Ponte San Marco tra Loria e Desenzano e levatogli ogni cosa” (c. 770v/89).
Perfino dentro Roma un corriere poteva essere “svaligiato”: “Domenica notte il Corriero ordinario di Milano partendo di qua al suo camino, fu assalito da 4 stradaroli avanti la vigna di Giulio dentro Roma per svaligiarli” (c. 398v/88).
Le percosse, le ferite inferte ai corrieri e perfino le loro uccisioni erano all ’ ordine del giorno: “Fu malamente ferito di ronchettate su la testa il Postiglione dello Scaramiccia, che correva con l ’ ordinario di Bologna; “Il corriero ordinario di Praga è stato ammazzato a Pesten sul Trentino, non sapendosi da chi” (c. 378v/88). “A Pietra Mala era stato assassinato nell ’ hostaria da banditi un corriero che di Firenze passava a Venetia con molte migliara de scudi” (c. 774r/89); “Il Corriero ordinario di Venetia, che doveva arrivare qua mercore la sera secondo l ’ obligo, non comparse prima di giovedì a mezzo giorno, per essere stato svaligiato qua da Spoleti un miglio, levatogli 800 scudi della Camera Apostolica, et molto ben bastonato” (c. 234v/90).
Inoltre anche i corrieri erano vittime delle fazioni politiche contrapposte e delle guerre in corso nelle varie regioni d ’ Europa: “Si verifica che il corriero ordinario di Spagna, partito di qua ultimamente, sia stato preso dalli Ugonotti di Francia a confini et condotto avanti al Re di Navarra” (c. 390r/88); “Né sarà maraviglia se nell ’ avenire mancaranno tal volta lettere di Francia, poiché di là scrivono la intercettatione et rubbamenti de spacci et de corrieri come avviene in tempo di guerra” (c. 199r/89); “Domenica la sera comparse finalmente il tanto aspettato corriero di Spagna con le lettere la maggior parte lacerate et aperte da gli Ugonotti di Francia” (c. 440r/89).
Si parla espressamente di impiccagioni di corrieri per motivi politici, in quanto ritenuti possibili latori di lettere e di notizie dalla parte avversa: “Se intende, che i Parigini in ricevere il Breve monitoriale di Nostro Signore spedirono subito un corriero a Roma, il quale fu appiccato dalle genti del Re, sì come l ’ istesso si crede sia avenuto a quello di Spagna, et ad altri corrieri che mancano” (c. 424r/89); “Il quale Duca [di Savoia] haveva fatto impiccare un corriero, che da un Principe d ’ Italia era stato spedito in Francia, havendo scoverto che da quella, et da altre lettere si scrivevano cose pregiuditiali a Sua Altezza” (c. 205r/90).
Un ulteriore problema per un corriere era rappresentato dalla meteorologia: “Le nevi in Calavria sono state di maniera grave, che è passato un mese che il Procaccio non ha potuto venire di là” (c. 130v/86); “Questa settimana siamo fin hora senza lettere d ’ Anversa per causa de tempi contrarij et delle acque grosse” (c. 98r/87); “Il Corriero di Firenze che doveva arrivare fin giovedì della settimana passata non giunse qui [a Venezia] prima di domenica impedito dalle altissime nevi delli Appennini” (c. 584r/86).
Durante il brutto inverno del 1589 si legge: “Uno delli corrieri spedito ultimamente dall ’ Ambasciatore di Spagna qua residente al suo Re ha perso gli spacci, danari et quanto haveva in un luogo detto la Cascina verso Pisa, immerso nel acque fino alla gola” (c. 705r/89); “Il corriero ordinario di Lione, che doveva giungere la settimana passata, non è comparso prima di martedì, tratenuto dalle nevi grandissime cadute oltra i modi” (c. 18r/89); “Il corriero ordinario di Milano, che doveva arrivar qua la settimana passata, non è comparso fin lunedì la notte per le nevi” (c. 774r/89).
Per i corrieri non era gratificante neppure l ’ onorario che percepivano. Il costo di un corriere si diversificava a seconda della lunghezza del tragitto da percorrere, della quantità delle “poste” in cui doveva fermarsi per il cambio cavallo e per il pernottamento, della diversa qualità del corriere (ordinario o straordinario) [68], del tempo stabilito per la consegna e, non ultimo, della pericolosità degli Stati da attraversare. A tutto ciò si aggiungevano altre variabili, tra cui se chi spediva era un privato cittadino o la curia romana o una corte; se si affidava la lettera ad una compagnia organizzata di corrieri o se si usavano corrieri propri; se si trattava di un avviso urgente che richiedeva un tempo breve di consegna o se utilizzavano i normali tempi ordinari. Comunque il costo era salato e non sempre si poteva risparmiare affidando le lettere ai “postini occasionali”, cioè amici viaggiatori, pellegrini, soldati, mercanti.
Circa il costo di una spedizione ordinaria di avvisi o di lettere trovo emblematica una frase scritta nel novembre del 1589 relativa all ’ ambasciatore della lega francese a Roma: “Si dice che ’ l Commendator Diù habbia ordine di tornarsene in Francia per non fare più spese, massime in spedire Corrieri” (c. 715v/89). Solitamente una lettera si pagava dai 15 ai 25 baiocchi l’oncia (c. 3v/88). 25 baiocchi corrispondevano a 7,35 grammi di argento, cioè al prezzo di costo di 10 o 12 chili di pane [69]. Non era poco!
Circa i tempi di consegna basta scorrere gli avvisi e osservare alcune sigle poste in molti fogli in alto a sinistra, scritte con una grafia minuta e quasi nascosta. Sono gli indicatori dei tempi di percorrenza del corriere. Ebbene nel foglio 159r del 1588 si legge: “Di Praga li 29 Marzo 88”, ed accanto vi è scritto: “16 Aprile”, cioè questo avviso è arrivato da Praga a Roma in 18 giorni; ugualmente al foglio 104r del 1589 si legge che quell ’ avviso scritto da Anversa l ’ 11 febbraio è arrivato a Roma il 25 dello stesso mese, cioè dopo 14 giorni; un altro, che era partito ugualmente da Anversa il 22 gennaio 1590 arriva a Roma il 10 di febbraio, cioè dopo 19 giorni (c. 61r/90); un altro ancora, partito dalla stessa città il 26 gennaio, era arrivato a Roma il 16 febbraio, cioè dopo ben 21 giorni (c. 66r/90).
Vi sono poi testimonianze dirette dei vari tempi di percorrenza. Ad esempio per andare da Firenze a Roma un corriero impiegava un giorno (“Il Corriero venuto l ’ altr ’ hieri di Fiorenza in 24 hore si dice essere per le cose di Francia”, c. 97r/89); sette giorni dalla Baviera a Roma (“In sette giorni è comparso qua corriero dal Duca di Baviera” c. 714v/89). Altrove si dice che un corriero è giunto da Londra a Parigi in 10 giorni, dal 24 agosto al 3 settembre 1588: “Hor ’ hora finisce di giunger un Corriero d ’ Inghilterra a questo Ambasciator Inglese che partì di Londra à 24 Agosto” (c. 465v/88). Più di 20 giorni occorrevano ad una lettera per giungere da Costantinopoli a Venezia: “Mercordì sera gionse una fregatta da Cattaro in diligenza con lettere straordinarie di Constantinopoli venute in 23 giorni” (c. 573r/88), mentre da Tours in Francia un corriero è arrivato a Venezia in 14 giorni (c. 351r/89) e un altro da Parigi a Roma in 15 giorni (c. 671v/89) e una volta in 13 giorni (c. 339r/90), ma eccezionalmente anche in 10 (c. 282r/89). Sempre 14 giorni da Lione a Roma (c. 193r/90) e 9 giorni dall ’ Olanda a Parma (c. 389r/90). Durante i “tempi stravaganti” del 1589 e 1590 seguiti all ’ uccisione del re Enrico III, i corrieri facevano una gran fatica a portare gli avvisi dalla Francia, tanto che un avviso arrivò da Parigi a Roma addirittura in 23 giorni (c. 255r/90) e il papa chiese di velocizzare l ’ arrivo dei corrieri per poter seguire l ’ evolversi degli avvenimenti: “Nostro Signore [ordina] di accomodare il corso delle poste in modo, che ogni 8 giorni venghi il Corriero ordinario da Lione a Roma, acciò in tempi così stravaganti si possino del continuo havere risposte innanzi, et in dietro per provedere a quanto bisognerà” (c. 636r/88).
Questa era la velocità di un corriere ordinario, dal momento che i corrieri straordinari, impiegati per dispacci importanti, bruciavano le tappe, coprendo le distanze anche in tempi dimezzati, come quel corriere giunto da Torino a Roma in tre giorni (“Con un Corriero estraordinario di Turino gionto martidi sera in 3 giorni all ’ Ambasciatore di quell ’ Altezza”, c. 501r/85) mentre un normale corriere ci impiegava almeno 4 giorni (“Un corriero venuto giovedi notte all ’ Ambasciator Muti da Turino in 4 giorni...” c. 173v/89), ed un altro era venuto addirittura in soli 2 giorni da Venezia a Roma per conto del Doge per lamentarsi che un vescovo locale aveva scomunicato l ’ intera Signoria veneta [70].
La completezza degli avvisi
A questo punto viene spontanea una domanda: ci sono arrivati TUTTI gli avvisi ufficiali scritti in quegli anni del pontificato sistino o possiamo pensare a mancanze e lacune in merito?
Più di un dubbio mi è venuto nel corso della trascrizione. Mi limito a due soli esempi.
Nel febbraio 1590 si legge in un Avviso: “Hora si dice, che la Bolla (della quale tante volte si è ragionato) dell ’ annullatione de feudi...” (c. 68r/90). La frase si riferisce alla bolla “Alienationes officiorum seu iurium et emolumentorum” (Bullarium CLXVI), con la quale papa Sisto rendeva nulle le vendite illegali degli uffici ecclesiastici. Ebbene faccio presente che quel “tante volte si è ragionato” in realtà non corrisponde a verità, perché si riducono a solo due volte le citazioni di tale bolla negli avvisi arrivati a noi e trascritti.
Sempre nello stesso mese ed anno si legge: “Era stato preso presso Parigi il Nivello libraro, partito di qua come si scrisse...” (c. 77r/90). Ebbene è la prima volta che tale libraio Nivelli viene citato e non lo sarà più in seguito.
Tutto ciò fa pensare a quanti altri avvisi non ci sono pervenuti. I motivi? È possibile solo fare alcune congetture: scelte volute da parte dei segretari mittenti che decidevano quali fogli inviare? corrieri non del tutto ligi al loro dovere di consegna? perdita o svaligiamento del carico? smarrimento o non archiviazione degli fogli stessi da parte del destinatario? omissioni di alcuni fogli al momento della rilegatura dei volumi come li abbiamo oggi? Tutto è possibile. Ci dispiace solo se qualche foglio omesso poteva recare notizie o informazioni che sarebbero state preziose per noi.
Un ’ altra considerazione. Gli avvisi qui trascritti sono quelli inviati da Roma ad Urbino, ma non ho trascritto quelli inviati nello stesso periodo del quinquennio sistino a Firenze, a Venezia, o in qualche altra parte del mondo. Certamente se confrontassimo tutti gli avvisi sparsi nelle varie biblioteche troveremmo delle variazioni nelle stesse notizie spedite da Roma nello stesso giorno o lacune vistose o aggiunte preziose. Questa variabilità che è da mettere in conto dipendeva dai vari addetti delle ambasciate, dai segretari e agenti dei diversi potentati che potevano completare o depennare a loro discrezione i fogli “ufficiali” delle agenzie o aggiungere i loro fogli personali, così come abbiamo visto fare in questi nostri avvisi urbinati dal segretario Grazioso Graziosi.
Un confronto mi è stato possibile fare. Negli avvisi conservati nella Biblioteca Nazionale di Firenze relativi all ’ anno 1588, nel foglio proveniente da Roma e datato 20 agosto si legge che Sisto V in una conversazione privata aveva espresso un suo desiderio circa la regina Elisabetta d ’ Inghilterra, cioè di vedere “la regina angla condotta legata a Roma” [71]. Ebbene scorrendo l ’ intero anno 1588 dei nostri avvisi urbinati non c ’ è assolutamente traccia di tale frase.
Eccesso di notizie?
Mettendo insieme l ’ imponente massa di avvisi relativi ai cinque anni del pontificato sistino, ci si accorge dell ’ enorme cumulo di informazioni che abbiamo tra le mani, un coacervo di notizie le più disparate e una quantità di avvenimenti i più diversi. Messo tutto insieme, questo materiale somiglia ad un grande oceano dagli orizzonti che si perdono a vista d ’ occhio e che incute soggezione per la schiacciante immensità. La mente si perde e il cervello si blocca. Troppe parole? troppe notizie?
Sembra strano un argomento del genere, eppure già nel Seicento si innescò una polemica in merito all ’ eccessiva abbondanza di notizie che arrivavano da ogni parte d ’ Europa.
Leggo in uno studio di Roger Chartier, che già nel 1628 il saggista inglese Robert Burton (1577-1640), nella sua opera “The anatomy of melancholy” condannava il frenetico e continuo flusso di notizie. La mente umana ne rimane sconvolta e tanto più le notizie sono numerose tanto prima la mente le dimentica, anzi “non fa altro che allontanare il lettore da un giudizio veritiero, che richiede il ritiro nel proprio intimo e in una vita solitaria. L ’ eccesso di notizie è fonte della confusione più estrema e rivela il caos di un mondo in cui nulla è stabile, né il corso della natura, né il destino degli uomini” [72]. E Chartier cita due studiosi, John Sommerville e Folke Dahl. Il primo fa un elenco della enorme abbondanza di avvenimenti che tutti insieme si abbattevano sull ’ Europa del XVI e XVII secolo, mentre il secondo ci riporta al bombardamento di notizie a cui è sottoposta la società odierna: “rumori di guerra, pestilenze, incendi, inondazioni, furti, omicidi, massacri, meteore, comete, spettri, prodigi, apparizioni, città conquistate, città assediate in Francia, in Germania, in Turchia, in Persia, in Polonia, ecc.”; [73] e “una grande confusione di desideri, aspirazioni, azioni, editti, petizioni, processi, arringhe, leggi, proclami, lagnanze, querele arrivano ogni giorno alle nostre orecchie. Ogni giorno nuovi libri, pamphlet, corantos [i primi fogli informativi, precursori dei giornali], storie, cataloghi interi di volumi di ogni tipo, nuovi paradossi, opinioni, scismi, eresie, controversie filosofiche, religiose, ecc.” [74].
Non mi permetto di dissentire da questi studiosi del comportamento umano, ma posso affermare che, dopo avere per anni interi immersa la mia mente nel grande oceano degli avvisi, non solo non mi sento schiacciato dall ’ abbondanza di notizie desunte, ma avverto di essere fortemente arricchito. È vero che in un oceano aperto qualcuno si può affogare, ma solo se non è dentro una nave o almeno sopra una zattera. Lo stesso accade nel mondo sconfinato delle informazioni, oggi in particolare: l ’ uomo deve saper ben navigare se non vuole naufragare. Basta usare saggiamente il filtro di un robusto discernimento e di una sana critica. In questo modo ognuno sarà capace di creare dentro di sé quel necessario spazio di silenzio che rinfranca l ’ anima, usando saggiamente il “ritiro nel proprio intimo”, consigliato già nel ’ 600 dal Burton.
La grammatica degli avvisi
A nessuno viene certamente in mente di collocare gli avvisi o le gazzette fra i testi di letteratura italiana, anche se io penso che quello sarebbe il posto giusto. “Mentre prima negli avvisi vi si cercavano notizie di personaggi o conferme di eventi storici, da una ventina d ’ anni si è cominciato a considerarli come espressione di letteratura popolare ed a volgere l ’ attenzione quindi anche alla loro lingua e al loro stile” [75]. Infatti l ’ Orbaan, chiedendosi quali erano stati i criteri che fino agli inizi del Novecento avevano guidato gli storici a consultare gli avvisi afferma semplicemente: “una curiosità di ordine superiore; un sospetto che in essi notizie importanti potrebbero nascondersi; la certezza di avere a disposizione una specie di calendario retrospettivo” [76].
Il linguaggio usato dagli avvisi è quello della cronaca veloce, del racconto popolare, della narrazione divulgativa e il fraseggio è fresco, immediato, scorrevole, pur con un periodare a volte un po ’ contorto. Si riportano anche modi di dire di quell ’ epoca, proverbi e detti popolari, con espressioni tratte dal linguaggio comune che ci restituiscono il sapore della quotidianità. Mentre le gazzette a stampa erano costrette ad utilizzare un linguaggio controllato e “paludato”, i fogli manoscritti hanno invece un ritmo più brillante e un linguaggio più aperto.
I nostri avvisi sono naturalmente scritti nell ’ italiano di fine Cinquecento, che ha un certo suo innegabile fascino, specie ad una lettura prolungata. Altra lingua presente è il latino, attraverso molte parole e frasi, ed anche con due rarissimi fogli scritti completamente in latino: uno giunto da Colonia nel maggio 1586 (c. 212r/86) e un altro da Varsavia il 2 giugno 1587 (c. 270v/87). Il lettore non si spaventi, perché il tutto è tradotto in nota! Non mancano parole e frasi che rimandano al francese e allo spagnolo. Rarissime le parole tedesche.
È certo comunque che i nostri avvisi richiedono una concentrazione particolare nella lettura, sia per la lingua italiana ormai desueta, sia per la quantità enorme di parentesi quadre usate per le abbreviazioni, sia per il contenuto che non è proprio da romanzo d ’ appendice. Qualche volta non sarà agevole e immediata neppure la comprensione dello stesso testo. E questo per diversi motivi.
Anzitutto si troverà di fronte a numerosissime abbreviazioni delle parole, specie quelle ripetute più spesso, come S[ua] S[anti]tà, S[ua] B[eatitudi]ne, Car[dina]le, S[ua] Ecc[ellen]za, q[ues]to, q[ua]nto p[rim]a, c[aus]a, n[ostr]o, S[ua] S[ignoria] Ill[ustrissi]ma, Ingh[ilter]ra, Ecc[lesiasti]co, Chr[istianissi]mo e centinaie di altre ancora. Avrei potuto scegliere di fare una edizione critica, lasciando il testo nella sua integrità (S. B.ne, Car.le, q.to, c.a), ma ho preferito trascrivere per esteso le parole contratte, completandole con l ’ uso della parentesi quadra, al fine di rendere più facile la lettura pur mostrando il testo originale. Qualcuno forse avrebbe preferito che le parole fossero messe nella loro interezza. È chiaro che ogni scelta è opinabile.
Molte parole risentono del latino. Siamo a Roma e il latino è d ’ obbligo non solo nella liturgia, ma anche nei documenti ufficiali della curia, nei sermoni accademici, nelle discussioni culturali e in molte pubblicazioni a stampa. Chi scrive in italiano, in un contesto di diffuso analfabetismo, è molto probabile che conosca anche il latino, per cui facilmente non solo abbellisce il testo con locuzioni latine, come “in verbo Cesaris” (sulla parola dell ’ Imperatore), “laborabat” (era ammalato); “est in finis” (sta per morire); “etiam” (anche), ma accetta l ’ uso corrente di scrivere alcune parole secondo la grammatica latina, come, ad esempio, tutte le parole che in italiano ormai sono pronunciate con la “z” e che in latino si scrivono con la “t”: scientia, ignorantia, amicitia, licentia, liberatione, sodisfattione... E non mancano i continui latinismi, a cominciare alla onnipresente congiunzione “et” per continuare in molte parole come dimandare, condescendere, tardanza (ritardo), voluntà, ponere (porre), inarborata (innalzata)...
Se la grammatica della lingua italiana si evolve di continuo nel tempo, possiamo capire come un testo di circa 450 anni fa segua le sue regole, diverse dalle nostre. Certamente oggi non poniamo gli accenti su certe parole (es. quà, à, fù, ò, hà...), mentre li mettiamo su altre parole (perché, affinché, né...); non poniamo l ’ apostrofo dopo l ’ articolo maschile indeterminativo (un ’ anno, un ’ altro, un ’ uomo...); togliamo le doppie a molte parole (es. essercito, priggioni, accommodamento, essortando...), mentre, al rovescio, ne raddoppiamo altre (es. publica, diferenza, cavaleria, femina, capellano, comodità...); uniamo ormai alcune parole (cio è, se bene, se pure); siamo parchi nell ’ uso del maiuscolo, specialmente quando si parla di cose o animali o anche di mesi e di giorni della settimana; non usiamo più il congiuntivo nella forma arcaica (oggi diremmo “alla Fantozzi”): faccino, vadino, dichino, venghi, obedischino...; certamente non usiamo più certi arcaismi nei tempi verbali, come possendo (per potendo), comparse (per comparve), creorno, passorno, furno, uscirno. Diverso è per noi l ’ uso della punteggiatura, soprattutto della virgola (“oltre a molte essentioni, et privilegij”; “disse, che poteva”...) e del plurale e singolare: Il cardinale è tornati a Roma... “Li Signori alla Sanità fece pubblicare...”; “Ogni persona vi andavano scalzi”; “Sua Altezza e l ’ Olivar andò...”; “Viene nuove forze de Svizzeri”; “S ’ è ribaltata una barca con molta gente che v ’ erano dentro”; “Si vede lettere da Costantinopoli” e tantissimi altri esempi. Nella trascrizione mi sono limitato a “modernizzare” gli accenti, gli apostrofi e alcune maiuscole. Non ho toccato il testo.
Non mancano diversi francesismi: primpotempo per il francese printemps, primavera (c. 747r/89), marchiare per marciare (dal francese marcher)…; ma vi sono anche diverse parole che risentono dello spagnolo, lingua ben presente negli Stati italiani dominati dalla Spagna (Milano, Napoli, Sicilia).
Un problema costante è la diversità nel riporto di nomi di persone e di città trascritte in modo diverso e variate in modo impressionante da una pagina all ’ altra. Ad esempio l ’ ambasciatore veneto presso il papa, Badoreo, si trasforma facilmente in Badoaro, Badonaro, Boadonero, Badraro, oppure il cardinale di Vaudemont si trasforma in Valdemon, Vadamont, Vademonte...; la città olandese di Neis si trasforma in Nois, Neus, Neuss..., Tours in Tur, Tor, Tuor, Torsi...
Alcune parole che a noi oggi sono chiare per il loro significato, hanno invece per lo scrittore del Cinquecento un significato diverso. Es. tuttavia vuol dire “ancora”; affatto sta per “del tutto”; all ’ incontro sta per “dall ’ altra parte, al rovescio”; “fortuna indica la tempesta in mare. Altre parole o modi di dire invece sono ormai del tutto desuete, come ad esempio “incarcanito” per ingarbugliato; “partire con le calcagna”, cioè darsi alla fuga; “avere le trombe nel sacco”, cioè non aver concluso nulla... Un ’ ultima osservazione: quando si legge la parola “Cavalli” al maiuscolo non si intendono gli equini, ma i cavalieri.
Quale papa Sisto emerge dagli avvisi?
La figura di Sisto V emerge in tutte le sue sfaccettature: nella sua genialità come nelle sue debolezze. Tutti devono molto presto fare i conti con questo papa dal carattere forte, deciso, volitivo, attivo; un uomo dalle decisioni chiare, dal parlare sincero e diretto, senza finzione o accomodante diplomazia, tanto che anche i suoi detrattori dicono di lui che “non era suo humore il tacere con la bocca quel che portava nel cuore” [77]. Non ha un carattere facile e malleabile: è uomo risoluto, dalle idee chiare e per questo imperioso e determinato. Va anche spesso in collera per la focosità del suo carattere ma sa anche riconoscere i suoi errori: “Si potrebbe dubitare un giorno di peggio, se Sua Santità non ’ havesse fra l ’ altre questa virtù, di non ’ essere pertinace nelle sue risolutioni” (c. 330r/86) ed è anche tenerissimo fino alle lacrime: “Lavò i piedi secondo il consueto alli 12 poveri, con tanta tenerezza che Sua Santità nel principio di quell ’ atto non poté contenersi da dirottissime lacrime” (c. 182r/89).
Ma senza questo carattere forte e imperioso poteva Sisto compiere, nel suo breve lustro del suo pontificato, tutto ciò che ha operato e che la storia gli riconosce? Non a tutti gli storici la figura di Sisto V rimane simpatica, a qualcuno sta proprio indigesta, a fronte di altri storici che lo esaltano come il più grande papa del Cinquecento. Ma tutti gli storici riconoscono che la statura di questo pontefice si erge di molto al di sopra di tantissimi altri papi e che ha pensato ed operato alla grande, come solo i geni fanno. Ha lasciato tracce profonde nella spiritualità, nello stile di governo, nella giustizia, nella economia, nell ’ urbanistica, nel rapporto con i potenti. Pochi avrebbero osato tanto e credo che nessuno avrebbe pensato di cercare un accordo con il sultano stesso di Costantinopoli per acquistare e portare in Italia da Gerusalemme il Santo Sepolcro: “Si va dicendo,che ’ l Pontefice ha un pensiero gloriosissimo di volere cioè redimere di mano del Turco il Santo Sepolcro, et servirsi in questo traffico delli più omnipotenti mezzi, senza riguardo di qual si voglia somma di denari che la Porta di Costantinopoli adimandi, et di qual si voglia eccessiva spesa, che ci vada per havere quel felicissimo sacro, che fu arca del nostro Redentore” (c. 59r/87) [78].
È molto affezionato alla sua famiglia di umili origini (da papa gratificherà un ebreo “che aiutava industriosamente la povertà della famiglia di Sua Beatitudine” c. 498r/85), al paese della sua famiglia, Montalto (“Ha fatto venire del suo paese 24 huomini, a quali vuole si distribuiscano tutti gli offitij, et carichi palatini”, c. 371v/85), e alla sua regione, le Marche (“Per l ’ avenire sempre la Provincia della Marca habbia un ’ Advocato Concistoriale” c. 242r/85), ma anche alla “famiglia” formata dai suoi servitori e segretari (“Nostro Signore è riconoscitore di tutti quelli che l ’ hanno servito” c. 429v/87).
La levatura spirituale del papa è spesso messa in risalto dai cronisti, che ammirano anche la sua mensa frugale e francescana, oltre alle abbondanti elemosine compiute. Entra anche nella sfera della spiritualità quel suo lavorare con impegno e con instancabilità: “Per non volere Sua Beatitudine lasciare punto d ’ otio alla corte, anzi che da lei non mai stanca nelle fattioni del suo carico piglino tutti essempio” (c. 43r/88); “Nostro Signore è così diligente nel suo carico Pastorale, che vuole intendere, disponere, et ordinare fino alle minutie” (c. 517r/88).
Nella sua azione pastorale questo papa vive come un convinto seguace del concilio di Trento e un deciso sostenitore della riforma cattolica, a cominciare dai suoi pastori e dalla stessa Roma. Inventa la “visite ad limina”, riorganizza le congregazioni romane, obbliga i vescovi alla residenza (e l ’ anonimo menante scrive: “Rissolutione molto santa et necessaria” c. 709v/89), riforma la curia romana.
Ha governato Roma e lo stato ecclesiastico con vera passione, curando le sue finanze, le sue strade e ponti, i suoi problemi sanitari, la sua istruzione, la sua industria ed agricoltura, la sua flotta, interessandosi della lotta al banditismo, dell ’ approvigionamento idrico della città ed di tanto altro ancora, secondo quanto si legge in un avviso:“scoprendosi in Sua Beatitudine ogni giorno maggiore il desiderio et pensiero di giovare alli suoi popoli, et in specie a questa Città, della quale sempre è stata affettionatissima” (c. 279r/89).
Nel rapporto con i potenti papa Sisto ebbe “grande equilibrio, equidistanza, giustizia e dosaggio di concessioni”, anche se “Non ha rispetto ne à Cardinali, ne à coronati Ambasciatori” (c. 294r/85).
Circa il suo amore alla giustizia è interessante la laconica frase di un avviso nei primi mesi del pontificato: “Vuole Sua Santità che sia fatta giustitia indifferentemente contra qualsivoglia persona che errarà” (c. 296v/85), o questa più meditata affermazione: “Sua Beatitudine scoprendosi ogni giorno più giusto, et buono a buoni, come implacabile, et severo a cattivi, senza quelle maniere di rispetti, che son talvolta rovina de ’ Principi et mancamenti dell ’ autorità loro, riguardando solo al debito suo di Pontefice et Padre universale, castiga et riprende secondo l ’ occorrenza ogn ’ uno che erra” (c. 309v/85).
Si parla con stupore del suo impegno nella riduzione delle spese e dell ’ arricchimento delle finanze statali: “Nostro Signore è alieno dalle grandezze mondane et spese superflue” (c. 550v/89). Il suo risparmio porterà il tesoro papale a livelli mai avuti prima, e vuole che tale ricchezza sia utilizzata solo a precisi scopi per il servizio della Chiesa: “Il Papa, oltre la cura che tiene delle cose spirituali, non tralascia con la diligenza et la parsimonia di procurare che la Sede Apostolica sia ben provista de ’ beni temporali, non solo per conservatione del Stato Ecclesiastco, come anco per poter supplire alli bisogni, che di continuo occorrono nella Christianità” (c. 487r/87).
Roma, alla morte di papa Sisto è irriconoscibile, con il tracciato “stellare” operato ex novo e in brevissimo tempo e con la creazione di alcuni grandiosi assi viari rettilinei: “Nostro Signore è intento a fare stendere strade nuove per retta linea” (c. 104r/86), vedendosi per tutta Roma “tanti biffi (cioè picchetti) che si vanno mettendo a dirittura per la Città, per le vigne, et per i Giardini (c. 42r/86).
Si potrebbe riassumere la figura di papa Sisto, così come emerge dagli avvisi, con questa frase di un anonimo menante “Diede buoni ordini, secondo la gran prudenza, valore et vigilanza di Sua Beatitudine in tutte le cose” (c. 462r/89).
Sappiamo come la figura di Sisto V sia stata penalizzata da una certa falsata e volutamente distorta storiografia (a cominciare da Gregorio Leti), che a sua volta ha alimentato una falsa quanto banale novellistica popolare romana. Ebbene credo proprio che solo leggendo gli avvisi del suo pontificato si possa far luce vera sulla sua innegabile grandezza.
Conclusione
Al termine di questa introduzione generale sugli avvisi del pontificato sistino anzitutto chiedo scusa dei miei limiti, e spero che questi non diminuiscano il valore dell ’ opera.
Vorrei ringraziare di vero cuore la Biblioteca Apostolica Vaticana e tutto il suo personale per la collaborazione sempre pronta ed attenta ad ogni mia richiesta in questi anni. Tramite la lettura diretta dei manoscritti, le fotocopie e i microfilm mi è stato possibile portare avanti il mio lavoro. L ’ unico rammarico è quello di non aver potuto avere fra le mani l ’ “Urbinate Latino 1054” relativo al 1586, a causa del suo pessimo stato di conservazione, essendo fortemente danneggiato dalle componenti metalliche dell ’ inchiostro, per cui alcune pagine non sono state trascritte, non essendo leggibili neppure attraverso il microfilm. Spero che quanto prima il volume possa essere restaurato e offrire così la possibilità di completare la trascrizione. Passo il testimone ad altri ricercatori più giovani.
Sono fiero di aver dedicato otto anni della mia vita alla trascrizione di questa enorme documentazione archivistica e di consegnarla nelle mani degli studiosi e degli storici. Troveranno qui un materiale pronto per la consultazione, senza la fatica della difficile (a volte impossibile) lettura degli originali.
A guadagnarci sarà senza dubbio la figura di papa Sisto V e del suo breve ma intenso pontificato. E questo, solo questo, era il mio scopo.
Quest ’ opera infatti vuole essere il mio regalo alla sua memoria, nel quinto centenario della sua nascita (13 dicembre 2021), figli comuni della amata terra picena.
Mai come ora faccio pienamente mio il giudizio che su papa Sisto ha dato un grande studioso della storia della Chiesa: “Sisto V è uno dei più imponenti fra i molti importanti pontefici che produsse il tempo della riforma e restaurazione cattolica. Si può ben dire che la posterità a questo papa, che pieno della fiducia in Dio guidò la navicella di Pietro in un tempo sommamente critico con energia e prudenza di antico romano, ha ingiustamente negato il titolo di GRANDE” [79].
“Questo dunque è stato l ’ unico mio oggetto di questa lunga e veramente dura fatica. Se poi nel sostanziale dell ’ Opera non avrò ottenuto l ’ intento, sarà difetto del corto mio ingegno, non del mio desiderio, tutto rivolto ad impiegare quali si sieno le poche mie forze a contribuire qualche alleviamento agli studj degli uomini”.
G. F. PIVATI, Nuovo dizionario scientifico e curioso sacro e profano. Venezia 1746, tomo I, p. LXXX.
[1] J.A.F. ORBAAN, La Roma di Sisto V negli Avvisi. Archivio della Società Romana di Storia Patria, 33 (1910), 277-312.
[2] C. D ’ ONOFRIO, Gli “Avvisi” di Roma dal 1554 al 1605 conservati in Biblioteche ed Archivi romani. In “Studi Romani”, 10 (1962), pp. 529-584.
[3] OWL (Online Window into the Library) della Biblioteca Vaticana, n. 3, Settembre-Ottobre 2017.
[4] T. BULGARELLI, Gli avvisi a stampa in Roma nel Cinquecento. Istituto di Studi Romani editore. Roma 1967, p. 22.
[5] M. INFELISE, La circolazione dell ’ informazione commerciale. In “Commercio e cultura mercantile”, a cura di F. Franceschi, R.A. Goldthwaite, R. C. Mueller. Angelo Colla ed. Treviso 2007, pp. 518.
[6] BONGI, Le prime gazzette in Italia, in «La Nuova Antologia», IX, 1869, p. 312.
[7] Oltre all ’ Orbaan e al Bongi già citati, rimando ai seguenti studi: C. MARZI, Degli antecessori dei giornali, in “Rivista delle biblioteche e degli archivi”, anno XXIV, ottobre-dicembre 1913, pp. 181-185; R. ANCEL, étude critique sur quelques recueils d ’ avvisi. Melanges d ’ archeòlogie et d ’ histoire 28, 1908, pp. 115-139; C. BARBERI, Gli avvisi a stampa nella Roma del Cinquecento. Strenna dei Romanisti, 1955, pp. 277-281; C. D ’ ONOFRIO, Gli avvisi di Roma dal 1554 al 1605 conservati in biblioteche ed archivi romani. Studi Romani 10, 1962, pp. 529-548; C. BARBERI, Libri e stampatori nella Roma dei Papi. Studi Romani 13, 1965, pp. 433-456; J. DELUMEAU, Vita economica e sociale di Roma nel Cinquecento. Sansoni 1979; A. BERTONE, Il Giornalismo romano delle origini (sec. XVI-XVII). Catalogo della mostra. Roma, Biblioteca Nazionale Centrale 1979; M. A. Morelli, Delle prime gazzette fiorentine. Firenze, Stiav. 1963; F. BARBERI, Libri e stampatori nella Roma dei Papi. Studi Romani, ottobre-dicembre 1965, pp. 433-456: Idem, 1967; T. BULGARELLI, Gli Avisi a stampa in Roma nel Cinquecento. Bibliografia. Antologia. Roma, Istituto di Studi Romani 1967; U. BELLOCCHI, Storia del giornalismo italiano, Ed. Edison Bologna 1974; V. CASTRONOVO, I primi sviluppi della stampa periodica tra Cinque e Seicento, in V. Castronovo, G. Ricuperati, C. Capra, La stampa italiana dal Cinquecento all ’ Ottocento. Ed. Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 1-65; A. BERTONE, Il Giornalismo romano delle origini (sec. XVI-XVII). Catalogo della mostra, Roma, Biblioteca Nazionale 1979; A. PETRUCCI, Scrittura e popolo nella Roma Barocca 1585-1721. Roma Quasar 1982; H. GAMRATH, Roma Sancta Renovata. Roma, L ’ Erma di Bretschneider, 1987; E. STUMPO, La Gazzetta de l ’ Anno 1588. Firenze, Giunti 1988; C. FEDELE, M. GALLENGA, “Per servizio di Nostro Signore”. Strade, corrieri e poste dei papi dal medioevo al 1870. Prato, Istituto di Storia Postale, 1988 V. SESTIERI LEE, Avvisi a stampa e manoscritti nella Roma del ’ 500. Quaderni d ’ italianistica, XII, 1, 1991; Revue officielle de la Société canadienne pour les études italiennes, pp. 83-92, con bibliografia; M.G. TAVONI, I “materiali minori”: uno spazio per la storia del libro, in “Gli spazi del libro nell ’ Europa del XVIII secolo”, a cura di M.G. Tavoni e F. Waquet, Bologna, Pàtron, 1997; G. Gozzini, Storia del giornalismo, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000; C.H CARACCIOLO, L ’ informazione a Bologna tra Cinquecento e Seicento: il caso degli avvisi a stampa, in “Una città in piazza. Comunicazione e vita quotidiana a Bologna tra Cinque e Seicento”, Bologna, Ed. Compositori, 2000; B. Dooley, S. Baron, The Politics of Information, in Early Modern Europe. London – New York, Routledge 2001; M. Infelise, Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli XVI e XVII). Roma-Bari, Laterza 2002; R, CHARTIER, Inscrivere e cancellare. Cultura scritta e letteratura dall ’ XI al XVIII secolo. Laterza 2006 (soprattutto cap. IV: Notizie a mano, gazzette stampate); P. Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Bologna, Il Mulino, 2006; M. INFELISE, Sistemi di comunicazione e informazione manoscritta tra ’ 500 e ’ 700, in MESSERLI A. CHARTIER R., Scripta volant, verba manent. Basel, Schwabe Verlag, 2007, pp. 15-37; M. INFELISE, La circolazione dell ’ informazione commerciale. In “Commercio e cultura mercantile”, a cura di F. Franceschi, R.A. Goldthwaite, R. C. Mueller. Angelo Colla ed. Treviso 2007, pp. 500-522; R. GORIAN, Frontespizi, supplementi, cartigli, note sulla conservazione e l ’ integrità delle raccolte di gazzette. in “Libri e documenti. Le scienze per la conservazione e il restauro”, a cura di M. Plossi - A. Zappalà, Gorizia, Biblioteca Statale Isontina - Edizioni della Laguna, 2007; A. TALLON. L ’ Europa del Cinquecento. Stati e relazioni internazionali. Carocci, Roma 2013; M. INFELISE, Gazzetta. Storia di una parola. Edizioni Marsilio 2017.XVI e XVII).
[8] L ’ intero fondo degli Urbinati Latini è costituito da 42 volumi manoscritti (codd. 1038-1073, che vanno dal 1554 al 1605. C. STORNAJOLO, Codices Urbinates Latini: tomus I (Codices 1-500), tomus III (Codices 1001-1779). Romae Typis Polyglottis Vaticanis MDCCCCII e MCMXXI. Se è vero però che la collezione più ampia e più celebre di Avvisi conservata in Biblioteca Vaticana è quella raccolta dai duchi di Urbino (Urb. lat. 1038-1117, 1704, 1727), si deve dire che altri avvisi sono presenti in altri fondi manoscritti della stessa Vaticana, soprattutto quelli raccolti da famiglie romane come i Barberini, i Chigi, gli Ottoboni (fra questi si segnalano i Barb. lat. 3520-3525, 3538, 3573, 6341, 6343-6345, 6373-6374, 6376, 6380-6381, 6383-6386, 6388-6389, 6417, 7053, 9837-9838; Cappon. 29; Chig. O.III.35-O.III.37; Ott. lat. 2445, 2449-2450, 2458-2459, 3337-3363). Ce lo dice lo stesso Stornajolo: “Vaticana conlectio codicum qui Urbinates nuncupantur non solum constat, ut aliquis ex solo nomine arguere potest, ex codicibus qui erant insignis Biybliothecae a Fiderico I Montefeltrio in ducali palatio Urbini conditae et a successoribus eius auctae, verum etiam libros conplectitur Bybliothecae quam postremus dux in Durantis Castro conlegit, immo et multos, qui Ducum Urbinatum nunquam fuerunt” (STORNAJOLO, op. cit. p. VII). Per non addentrarmi nella specifica questione del fondo degli “Urbinati” uniti alla Vaticana al fondo del banchiere tedesco Ulrich Fugger rimando al citato lavoro del D ’ Onofrio, p. 535).
[9] Il ducato di Urbino (che esisteva dal secolo XIII come contea locale) nacque ufficialmente il 4 maggio 1443 con la nomina a duca, da parte di papa Eugenio IV, di Oddantonio da Montefeltro (1427-1444), vassallo del papa. Il ducato occupava la parte settentrionale delle Marche, toccando anche parte della bassa Romagna e dell ’ alta Umbria attorno a Gubbio. Il successore di Oddantonio fu Federico da Montefeltro (1422-1482), capitano, principe e mecenate delle arti, che trasformò Urbino nella città ideale del Rinascimento e portò il ducato alla sua massima prosperità economica. Gli successe il figlio Guidobaldo I, che dovette affrontare la breve conquista del ducato da parte del duca Valentino Borgia. Alla morte di Guidobaldo nel 1508, purtroppo senza eredi, il ducato passò dai Montefeltro ai Della Rovere, con Francesco Maria I Della Rovere, figlio di una sorella di Guidobaldo. Il territorio si allargò con le città di Pesaro e di Senigallia. Nel 1538 gli succedette il figlio Guidobaldo II Della Rovere. A costui, nel 1574, seguì il figlio Francesco Maria II Della Rovere, ottimo duca, che abdicò a favore del figlio Federico Ubaldo nel novembre 1621. Quando Federico Ubaldo morì prematuramente a 18 anni il 28 giugno 1623 dopo essere diventato padre della sua unica figlia Vittoria Feltria, il vecchio duca Francesco Maria II della Rovere dovette nuovamente prendere in mano il ducato. Ma ormai senza più discendenti si trovò nella drammatica situazione di firmare nel 1625 un atto di devoluzione del ducato al papa, per cui alla sua morte, avvenuta il 28 aprile 1631, papa Urbano VIII decretò l ’ assorbimento del ducato allo stato pontificio. Da quel momento Urbino divenne una legazione pontificia. Tutti i beni mobili del ducato passarono di proprietà alla figlia Vittoria Feltria, la quale, sposandosi col Granduca di Toscana Ferdinando II de ’ Medici, portò con sé a Firenze le straordinarie raccolte di dipinti, gioielli e oggetti vari, ad eccezione della biblioteca, che entrò a far parte dei fondi librari vaticani nel 1657. Sul ducato di Urbino cito solo: A. DONATO, Relazione sulla Stato d ’ Urbino. 1631. In: “Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato.” A cura di Arnaldo Segarizzi. vol. II. Bari, Laterza 1913, pp. 237-260, dove si legge a p. 237 un bellissimo elogio dell ’ ultimo duca: “Quella felicità che si distribuisce alli popoli da un ’ eccellente virtù, quella pace che si gode sotto soave e moderato governo, quegli abiti virtuosi che non si possedono se non col pelo bianco, vestivano Francesco Maria della Rovere, sesto ed ultimo duca d ’ Urbino, e nel sereno di sicura tranquillità e contentezza lo rendevano adorabile ai sudditi e glorioso all ’ altre genti”; Filippo UGOLINI, Storia dei Conti e Duchi d ’ Urbino, vol. 2, Firenze 1859.
[10] Sul progetto culturale operato dal duca Federico vedi: M. BONVINI MAZZANTI, Politica e cultura, in “Ornatissimo codice”. La biblioteca di Federico di Montefeltro, a cura di M. Peruzzi, Milano 2008, pp. 13-19. Sulla produzione dello scriptorium urbinate vedi: C. MARTELLI, I codici di produzione urbinate e lo scriptorium di Federico di Montefeltro. Idem, pp. 69-78.). I codici erano custoditi nella biblioteca collocata al primo piano con apertura sul raffinato cortile rinascimentale (vedi foto a pagina XXV).
[11] M. MEI - F. PAOLI, La libraria di Francesco Maria II della Rovere a Casteldurante: da collezione ducale a biblioteca della città, Urbania, Quattroventi, 2008; A. SERRAI, La ricostruzione della Biblioteca Durantina, Urbino, Quattroventi, 2009.
[12] P. COMPAGNONI (ante 1774), Notizie sopra la Libreria Ducale di Urbino trasportata in Roma ed unita alla Vaticana. Ms, Fermo, Biblioteca comunale; C. GUASTI, Inventario della Libreria Urbinate compilato nel secolo XV da Federico Veterano Bibliotecario di Federico da Montefeltro Duca di Urbino. Giornale Storico degli Archivi Toscani. Giugno 1862, marzo e giugno 1863; M. Peruzzi, Cultura potere immagine. La biblioteca di Federico di Montefeltro, Urbino 2004; Principi e Signori. Le biblioteche nella seconda metà del Quattrocento, a cura di G. Arbizzoni, C. Bianca, M. Peruzzi, Urbino 2010; La Biblioteca di Francesco Maria II della Rovere. Introduzione, a cura di Alfredo Serrai, Urbino, Quattroventi, 2012.
[13] “L ’ archivio dei Montefeltro-Della Rovere fu considerato un bene allodiale, tanto che fu trasferito a Firenze anche se conteneva documenti importanti per la città; per molti anni gli Urbinati furono costretti a chiedere a Firenze gli estratti dei documenti catastali, fino a che nel 1705 [l ’ urbinate] Clemente XI restituì alla città i registri del catasto, acquistati dal cardinale Medici”, M. MORANTI, Dalla morte di Francesco Maria II della Rovere al trasferimento alla Biblioteca Vaticana. In “Ornatissimo codice”, cit., p. 130.
[14] Lukas Holste (Amburgo 1596 – 1661, italianizzato in Luca Olstenio per la sua lunga permanenza a Roma) è stato un umanista, geografo e storico. Venne in Italia nel 1627 e nel 1636 divenne bibliotecario del cardinale Francesco Barberini, che possedeva la più importante biblioteca privata di Roma. Papa Innocenzo X lo nominò sovrintendente alla Biblioteca Vaticana. Luca Olstenio, su Treccani.it - Enciclopedie on line, Istituto dell ’ Enciclopedia Italiana.
[15] ANONIMO, La biblioteca ducale di Urbino, in Rivista Europea, 1877, pp. 82-94; F. RAFFAELLI, La imparziale e veritiera istoria della unione della Biblioteca Ducale di Urbino alla Vaticana di Roma. Fermo 1877; VALENTI, Sul trasferimento della biblioteca ducale d’Urbino a Roma. Memorie critiche. Urbino 1878; C. FRASCHETTI, La biblioteca ducale di Urbino. Suo trasferimento alla Vaticana, in Fanfulla della Domenica, 7 febbraio 1907. M. Moranti - L. Moranti, Il trasferimento dei “codices Urbinates” alla Biblioteca Vaticana. Cronistoria, documenti e inventario. Accademia Raffaello, Urbino 1981; M. Peruzzi, Lectissima politissimaque volumina. I fondi Urbinati in La Vaticana nel Seicento (1590-1700); Una biblioteca di biblioteche. Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, III, Città del Vaticano 2014, pp. 338-394.; E. BRAICO, Storia di una Biblioteca perduta (o salvata), da: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; M. MORANTI, Dalla morte... In “Ornatissimo codice”, op. cit., pp.129-135; Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana. Vol. I. Dipartimento manoscritti. A cura di Francesco D ’ Aiuto e Paolo Vian. Città del Vaticano, BAV 2011, pp. 538-553).
[16] M. Moranti - L. Moranti, Il trasferimento dei “codices Urbinates, op. cit. p. 99.
[17] E. NARDUCCI, Notizie della Biblioteca Alessandrina nella Regia Università di Roma. Roma 1872; A. Melmeluzzi, I cataloghi antichi della Biblioteca Universitaria Alessandrina, in Accademie e biblioteche d ’ Italia, LIX (43°) n. 1, 1991, pp. 5-21. T. VALENTI, Le vicende della “Libreria impressa” dei duchi d ’ Urbino e l ’ “Alessandrina” di Roma, in Accademie e Biblioteche d ’ Italia IV (1931), n. 4-5 (aprile), pp. 337-348.
[18] Dice il Bongi: “Scrivendo il Lancillotti nel 1623, ne viene che egli intendesse l ’ arte de ’ gazzettieri esser cominciata poco dopo il 1550. Sono infatti del 1554 i fogli più antichi di nuove, che si incontrano negli archivi e che hanno l ’ aspetto non d ’ informazioni diplomatiche o private, ma di avvisi di menanti. Come è certo che alcune delle prime gazzette furono scritte a Venezia, altre pure se ne hanno di egual tempo venute da Roma. Anzi troviamo che la fabbricazione degli avvisi romani si allargasse più rapidamente, e trovassero credito e spaccio sopra gli altri in Italia”: BONGI, op. cit. p. 315. Il Bongi cita Secondo Lancillotti, scrittore benedettino a cavallo fra Cinque e Seicento (1583-1643), e la sua opera “L ’ hoggidi ouero gl ’ ingegni non inferiori a passati”, Venezia. Sul Lancillotti vedi: E. RUSSO, Secondo Lancellotti, in Dizionario biografico degli italiani. Roma, vol. 63 (2004).
[19] W. HEIDE, Die älteste gedruckte Zeitung. Mainz, 1931, p. 14.
[20] Tale unione del termine gazzetta con la moneta veneta è già presente nei dizionari del ’ 600 e ’ 700. Cito alcune testimonianze riportate da INFELISE, Gazzetta, op. cit. pp. 58-66: G. Mènage, Le origini della lingua italiana, Ginevra 1685, p. 247: “Gazzetta. Fogli d ’ avvisi di menanti. Item certa moneta di Venezia. Ho più volte inteso dire a un valentuomo che questi fogli presero tal nome da questa moneta, che fu ab antiquo il prezzo col quale essi si compravano”. R. COTGRAVE, A Dictionaire of French and English Tongues, London 1611: “Gazette. A certaine Venetian coyne scarce wort our fartingh: also a bill of newes or a short relation of the generall occurrences of the time, forget most commonly at Venice and thence dispersed every month into most parts of Christendome”. VOLTAIRE, Encyclopedie, Paris 1757, p. 534: “Gazette. On appella ces feuilles qu ’ on donnoit une fois par semaine, gazettes, du nom de gazetta, petite monnoie revenante à un de nos demisous, qui avoit cours alors à Venise”.
[21] INFELISE. Gazzetta, op. cit. p. 33.
[22] Il resoconto di quella storica ambasceria partita dal Giappone per volere di alcuni signori locali (“daimyo”) convertiti al cristianesimo si trova in “Relatione del viaggio et arrivo in Europa et Roma de ’ Prencipi Giapponesi venuti à dare obedienza a Sua Santità l ’ anno MDLXXXV”. A cura di Paolo Meietto, Reggio Emilia 1585. Vedi anche PASTOR IX, 725-730; X, 135-136; A. DA COSTA RAMALHO, Sisto V e l ’ ambasciata giapponese (1585). Estratto da “Biblos”, LXV (1989). Coimbra.
[23] T. PLEBANI. La corrispondenza nell ’ antico regime: lettere di donne negli archivi di famiglia. In: Per lettera. La scrittura epistolare femminile tra archivio e tipografia, secoli XV-XVII. Viella editrice, Roma 1999, p. 45.
[24] INFELISE, La circolazione dell ’ informazione commerciale, cit. p. 504.
[25] Negli avvisi si parla chiaramente di “copistarie de Parione” (c. 398v/87). E ancora: “Tiene occupati tutti li scrivani di Parione in farne molte copie” (c. 213v/90). Il rione di Parione faceva parte delle zone più storiche e abitate della Roma medievale. Scrive il Gamrath: “I rioni Ponte, Parione, Regola e Trastevere sulla sponda destra nonché la Città Leonina, costituirono il centro di Roma ancora per lungo tempo... Questa zona era percorsa dalle più importanti vie di comunicazione e costituiva il centro verso cui convogliavano le strade provenienti dalle grandi porte d ’ accesso alla città” (GAMRATH, Roma santa renovata, op. cit. pp. 38-39). In questo rione fiorì il commercio dei libri manoscritti, prima, e più tardi stampati dalla tipografia di Corrado Schweynheim e Arnoldo Pannartz, locatari del piano terreno di palazzo Massimo. Nei pressi lavorò anche il tipografo Antonio Blado. Come conseguenza logica sorsero librerie ben fornite, che crebbero di numero e d ’ importanza dopo l ’ invenzione della stampa a caratteri mobili. Si conoscono anche i nomi delle librerie o stamperie: all ’ insegna della Nave, dell ’ Europa, della Palma, della Regina, di S. Giovanni di Dio, dell ’ Aurora, della Rota, di Parigi. Vedi: www.romacittaeterna.it/vi-parione.
[26] V. CASTRONOVO, I primi sviluppi della stampa periodica tra Cinque e Seicento, op. cit. p. 9.
[27] In realtà qualche volta si nota una certa confusione nell ’ ordine delle carte, per cui le notizie non sempre sono nel giusto ordine cronologico. Un esempio lo si vede nell ’ annuncio della morte del cardinale Giacomo Savelli, avvenuta il 5 dicembre 1597: la prima notizia della sua morte è scritta addirittura il 23 novembre, dodici giorni prima che morisse (!), alla c. 497v (“Questa mattina si sono fatte l ’ essequie al morto cardinale Savello”); alla c. 499r del 21 novembre si dice che sta male; alla c. 505v del 25 novembre si dice che sta meglio; alla carta 517r del 2 dicembre si dice che è “in mano ai medici spirituali”; alla c. 518r del 5 dicembre si dice che “passò di questa vita”; alla c. 521r del 28 novembre si dice che “è senza febbre”; alla c. 523r del 5 dicembre si dice finalmente che si fanno i funerali. L ’ errore di queste notizie così sfasate non è del rilegatore dei fogli sparsi, che anzi segue l ’ ordine cronologico delle date scritte all ’ inizio dei singoli fogli (tranne quella della c. 521r). Appare invece probabile (nel caso del primo foglio del 23 novembre che annuncia la morte del cardinale già 12 giorni prima) che il menante abbia iniziato effettivamente a scrivere il foglio in quel giorno, ma che poi per qualche motivo l ’ abbia interrotto e messo da parte, per poi riprenderlo e concluderlo 12 giorni dopo, a morte avvenuta del cardinale, e probabilmente in fretta, senza neppure accorgersi che vendeva un foglio sfasato cronologicamente.
[28] INFELISE, Prima dei giornali, op. cit. p. 20-21.
[29] Sono continui i riferimenti alla cadenza settimanale: “Questa settimana non habbiamo havuto cosa alcuna da Midelburgo nè d ’ Inghilterra” (c. 410v); “Si scordò di scrivere la settimana passata, che...” (c. 514/86); “Le lettere di Napoli solite venire il Mercore con il Procaccio ordinario a Roma...” (c. 548v/87); “Di fatto undici settimane di avvisi havuti da Venetia ne ho levato 4” (c. 50v/88): “Il Corriero ordinario di Venetia venuto questa settimana...” (135r/88); “Si scordò di scrivere la settimana precedente, che...” (c. 148v/88); “Per l ’ assenza del Papa, et della Corte questa settimana ci è poco da scrivere” (c. 250r/88); “Dicesi che oltre il scritto della settimana passata di Constantinopoli...” (c. 349r/88); “Questa settimana non si sono havute lettere d ’ Inghilterra, Zellanda, né di Francia” (c. 485r/88); “Di Polonia questa settimana non sono comparse lettere” (c. 601r/88); “D ’ Inghilterra questa settimana non habbiamo lettere, perciò di quelle parti non havemo che avvisare” (c. 660r/88).
[30] Le nove che io intendo, sono quelle de gli avvisi che si scrivono ogni sabato. Et come voglio sapere alcuna cosa vado dove si scrivono i riporti”. Così rispose agli Inquisitori di Stato Ottavio Carnevale, un maestro di scuola con la passione della politica, a cui nel 1617 venne rivolta accusa di scrivere avvisi a favore degli spagnoli. M. INFELISE, Prima dei giornali, op. cit. p. 106.).
[31] Per un maggiore approfondimento di tale fenomeno vedi l ’ introduzione al volume relativo al 1586.
[32] A mo ’ di esempio si vedano le cc. 628r-630v/89: sono arrivate a Venezia le notizie da Lione, Venezia le rimanda quasi con le stesse parole insieme ad altre notizie della Serenissima e di altre parti d ’ Europa. Ugualmente un foglietto giunto a Roma da Lione e là scritto il 10 agosto 1590 viene trascritto integralmente nel nuovo e più completo Avviso romano che reca la data del 22 agosto: cc. 429r e 432r/90.
[33] Difficile la stima del costo di un foglio. “Addentrarsi nei costi dei fogli è un ’ operazione molto delicata, a causa della frammentarietà degli elementi a disposizione e della difficoltà di porre a confronto valori mai omogenei... Al di là delle variazioni i costi si mantenevano comunque sempre su valori piuttosto elevati, tanto da renderli fuori della portata di un pubblico di media levatura”. INFELISE, Prima dei giornali, op. cit. p. 41-42.
[34] Sembra strano infatti leggere di alcuni fatti inerenti lo stesso ducato urbinate, come ad esempio alla c. 491v/85, dove si parla in terza persona e in modo distaccato della rottura fra il duca e l ’ arcivescovo, come se ad Urbino non si sapesse quanto stava avvenendo. Ciò è senza dubbio la prova del fatto che spesso venivano acquistati i fogli già compilati e validi per tutte le corti, ed inviati così com ’ erano, senza leggerli. Lo spedire in fretta senza una previa lettura è evidente nella carta 286v/85, dove si dice con sincerità: “Per esser l ’ hora tarda non ho potuto vedere con diligenza il contenuto”.
[35] Scrive l ’ agente a Roma del duca di Savoia: “Le due lettere di Vostra Eccellenza... mi sono capitate qui... alle due hore di notte, mentre che io stavo con la penna in mano aspettando il Menante che mi portasse le nove da inviarglile; ma poi che egli non venne... V. E. per questa volta non potrà essere servita d ’ avisi con la diligenza che vorrei”. L. BELTRAMI, La Roma di Gregorio XIII negli avvisi alla corte Sabauda. Milano 1917, p. 11. Citato da D ’ ONOFRIO, op. cit. p. 532, che commenta: “L ’ agente sabaudo ci fa sapere comunque che assieme alla propria lettera inviava a Torino fogli di notizie (Avvisi) non scritti da lui medesimo, ma acquistati da un menante”.
[36] ORBAAN, op. cit., p. 278.
[37] G. CAMPORI, Lettere artistiche inedite. Modena 1866, p. 69.
[38] Il sottotitolo posto a questa bolla nell ’ edizione della prima uscita a stampa a cura degli Eredi di Antonio Bladi recita: “Contra scribentes exemplantes, et dictantes monita vulgo dicta gli avisi et ritorni ’ , mentre nell ’ edizione del Bollario, stampato negli anni 1857-1872 a cura del Tomassetti, è riassunto con maggiore chiarezza il tenore di essa: “Contra scribentes, dictantes, retinentes, transmittentes et non lacerantes libellos famosos atque litteras nuncupatas d ’ avvisi, continentes alicuius famae laesionem futurorumque successuum et eorum quae pro regimine Status Ecclesiatici secreto tractantur revelationem”. Cioè: “Contro quanti scrivono, dettano, trattengono, trasmettono e non distruggono libelli di fama e i cosiddetti ’ avvisi ’ , che contengono diffamazioni attuali e future verso qualcuno e rivelano segreti inerenti allo Stato della Chiesa”.
[39] “Nemo cuiusvis qualitatis, dignitatis etiam ecclesiasticae, status, gradus, ordinis, et praeminentiae fuerit, audeat, nec presumat libellos famosos, nec literas monitorum vulgo appellatas“Lettere di Avisi” continentes convicia, iniurias, vel famae et honoris alicuius laesionem, nec aliquam scripturam in qua de futuris successibus differatur, vel ea quae coram nobis, vel aliis ad universalis ecclesiae status regimen deputatis secreto tractantur, revelentur, componere, dictare, scribere, exemplari, retinere, nec ad aliquem transmittere, etiam si aliunde ab aliis provinciis, civitatibis, terris et locis, ad eorum manus pervenerint”.
[40] Nella parte centrale la bolla di Pio V dice testualmente: “Statuimus et ordinamus quod deinceps perpetuis futuris temporibus nemo, cuiusvis qualitatis, dignitatis, etiam ecclesiasticae, status, gradus, ordinis et praeminentiae fuerit, audeat nec praesumat libellos famosos, nec litteras monitorum, vulgo appellatas Lettere d ’ avvisi, continentes convicia, iniurias vel famae et honoris alicuius laesionem, nec aliquam scripturam, in qua de futuris successibus disseratur, vel ea quae coram nobis vel aliis ad universalis Ecclesiae Status regimen deputatis secreto tractantur, revelentur, componere, dictare, scribere, exemplari, retinere, nec ad aliquem transmittere, etiam si alunde ab aliis provinciis, civitatibus, terris et locis ad eorum manus pervenerint; sed statim quod aliqui similes libelli, litterae sive scripturae alicui delatae fuerint, statim quod illos seu illas habuerit, antequam vim earum manifestaverit, corrumpere seu igni tradere, vel dilecto filio nostro Rusticucio consignare teneatur, sub poenis praedictis, quas hic pro expressis haberi volumus, ac aliis etiam gravioribus, etiam ultimi supplicii et confiscationis bonorum, secundum qualitatem facti et personarum, arbitrio nostro irremissibiliter infligendis”. Constitutio contra scribentes exemplantes, et dictantes monita vulgo dicta gli avisisi, e ritorni. Roma, Stampatori Camerali eredi Blado, 1572 e BOLLARIO romano, Tomo VII, parte VIII, 969-971.
[41] Avviso presso l ’ Archivio di Stato di Firenze, coll. medicea, filza 3081, in D ’ ONOFRIO, op. cit. p. 540.
[42] Questo il testo integrale del bando sistino: “S ’ è osservato con longa esperienza, nello scriver che si fa da tutte le parti del mondo lettere d ’ avisi, non si è mai visto scriver cose particolari, con infamia et dishonore di nessuna sorte di persona, e massimamente de Principi et persone graduate, ma parlare con quella debita riverenza et rispetto che conviene et solo s ’ intende, che in quest ’ Alma Città capo della Religione et ricetto d ’ huomini virtuosi, si ritrovano alcuni di tanto mala natura scelerati calunniosi et detrattori che senza timor di Dio et della giustitia sono partiti dalle patrie loro così male avezzi, che hanno pigliato l ’ occasione per essercitar le loro lingue pestifere, de scriver lettere d ’ avisi in diverse parti, empiendo le carte de bugie et calunnie, infamando et detrahendo all ’ honore et reputation del prossimo, non considerando come Christiani di quanto castigo siano degni quelli che cercano di togliere la fama et l ’ honore altrui. Et non temendo le gravissime pene, che sono state imposte dalle Leggi et Sacre Costitutioni de Sommi Pontefici contra simili pestiferi huomini, che se tanto severamente et con tanta diligenza si procura d ’ estirpare gl ’ Homicidiali, Ladroni et Sicarij, quali offendano il prossimo nella robba, nella vita, così anco si deve equalmente col medesimo rigore estirpare et sradicare dal mondo questa sorte d ’ huomini che offendono nella fama et nell ’ honore, poiché per Leggi naturali et Civili, è stato sempre stimato più della vita dell ’ huomo. Per[ci]ò il molto Illust. et Reverendiss. Mons. Mariano P.benedetto Vescovo di Martorano di quest ’ Alma Città di Roma et suo distretto Governatore, et Vicecamerlengo, volendo anco dar rimedio a questo mal uso, et reprimere in tutto il veleno delle mordacissime lingue di questi scelerati, di espresso ordine di Sua Beatitudine con il presente publico Bando ordina e comanda che nessuna persona di qual si voglia grado, stato o conditione, ardisca o presuma scrivere o far scrivere, con lettere d ’ avisi o altre sorte di scritture, a nessuna sorte di persona di qual si voglia grado o conditione, sotto qual si voglia pretesto o quesito colore, infamie, detrattioni, calunnie di nessuno, et massime de Principi et persone graduate Ecclesiastiche o secolari, espressamente o con colerate figure, né in scrivere in qual si voglia sorte di lingua, stesamente, né con Cifre et Figure, né con occasione de discorsi, biasimar l ’ attioni pubbliche o secrete de altrui, che come fondati nelli lor capricci senza saper ragione o principio de negotij, s ’ aviluppano (miseri) nelle maledicentie et detrattioni, con scandalo et nausa anco di chi le legge, sotto pena della vita et confiscatione de beni, et di perpetua infamia. Ordina anco sua Sig. Reverendissima che nessuno ardisca ricever da qual si voglia persona simil avisi, lettere o scritture che contengano simil maldicentie et detrattioni. Et chi li riceverà, se subito non le rivelerà alli Governatori et Superiori de luoghi ove le riceverà, incorra nelle medesime pene sopradette. Li quali Superiori debbiano prendere sopra di ciò diligentemente informatione, et procedere contra li transgressori conforme a questo bando. Advertendo che si procederà contra li transgressori per inquisitione, denuntie secrete et ogni altro miglior modo per scoprir questi scelerati, se intercetteranno le lettere, et s ’ usarà ogni sorte di rimedio, perché s ’ habbino de levar simili abusi, etc. Dato in Palatio Reverendiss. D. Gubernatorir die XI Octobris 1586. Marianus P. benedictus Episcopus et Gubernator. In Roma, per gli Heredi d ’ Antonio Blado Stampatori Camerali, 1586”.
[43] D ’ ONOFRIO, op. cit. p. 539.
[44] BONGI, op. cit. p. 318; INFELISE, Prima dei giornali, op. cit. p. 157.
[45] BAV, Urbinate Latino 1042, I, c. 227v.
[46] “Sono molti in questa città che fanno pubblica professione di scriver nuove per il che sono salariati da diversi, et essi tengono banchetti, case et scrittori a tal effetto, al che essendo da far provisione conventiente. L ’ anderà parte che non sii alcun che nell ’ avvenir ardisca scrivere nove di qual si voglia sorte, anco di quelle che si ragionano per le piazze, per mandarle fuori o per darle nella città a persona di qual si voglia conditione, se ben fossero ambasciatori, rettori od altri ministri nostri, né a persone di aliena ditione di qualunque grado si sia, sotto irremissibil pena al contrafacente, essendo per la sua conditione atto alla galea, di esser condannato al remo con i ferri alli piedi per anni cinque, et non essendo atto, overo habile alla galera, in bando per anni dieci di questa città di Venezia, et del distretto, et di tutte le altre città, terre et lochi nostri, con taglia a chi rompesse il confin di lire seicento de picioli... Et se qualcuno accuserà il contrafaciente, sì che venga nella verità, sarà tenuto secreto, et conseguirà ducati cento nel modo detto di sopra. Intendendosi però eccettuati da questa parte li ambasciatori, agenti et secretarii dei principi che si attrovano al presente, et per tempo si attroveranno in questa città”. Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci, parti comuni, f. 113. E Cosimo Bartoli, agente a Venezia del granduca di Toscana, commentava: “Hieri fu mandato bando molto rigido contro a novellisti da parte de Caui de X: cosa insolita. Credo perché molti che vivevano dello scriver nuove che qui si chiamavano la gazetta scrivevano cose secondo il parer loro”, Riportato da INFELISE, in Gazzetta, op. cit. pp. 67-69.
[47] INFELISE, Prima dei giornali, op. cit. p. 160.
[48] STUMPO, op. cit. p. V.
[49] D ’ ONOFRIO, op. cit. p. 532.
[50] ORBAAN, op. cit. p. 279.
[51] Non ho trovato nessun riscontro di questo nome nella mia ricerca, tranne un ’ orazione funebre scritta un secolo prima da Giuliano da Imola per la morte del dottore in legge Girolamo Zanetino: “Iuliani Duciensis de Imola Lugubris Oratio pro Eccellentissimo sacrorum canonum ac legum Doctore D. Hieronymo Zanetino” [ca. 1493/94].
[52] Sul cardinale Bandini vedi A. MEROLA, Bandini Ottavio, Dizionario biografico degli Italiani, vol. 5 (1963).
[53] Naturalmente l ’ uso della lettera cifrata era generalizzata, specie nei momenti delicati delle guerre e delle trattative segrete. E naturalmente ogni codice aveva la sua particolare decifrazione, conosciuta solo dal destinatario che solo poteva leggere correttamente la lettera. Lettere cifrate le troviamo soprattutto nella guerra civile generatasi in Francia dopo l ’ uccisione da parte del re Enrico III dei fratelli di Guisa: “Si sono ritenute ancora alcune lettere de l ’ Ambasciatore di Venetia scritte in cifra” (c. 236r/89); “La sera del medesimo giorno comparse qua il secretario del legato Morosini... ha portato lettere in cifra” (c. 440r/89); “Il Re di Francia haveva fatto levare tutti li spacci del Cattolico, i quali erano stati trovati in cifra, onde poco sugo ne potranno cavare” (c. 453r/89). Nel dicembre 1589 un segretario del duca di Lorena ricevette alcune lettere proprio mentre stava andando dal papa, per cui le presentò non ancora decifrate: “La matina medesima di lunedì hebbe anco audienza il Lenoncurt, gentilhuomo del Duca di Loreno, et perché nel passare à Palazzo fu sopragiunto da un corriero del Padrone con lettere del primo di questo, notificò solamentea Sua Santità queste lettere, havute poco avanti et non discifrate ancora” (c. 751r/89). Anche fra cardinali e nobili era normale scambiarsi lettere cifrate: “[Il cardinale] Monti si licentiò dal Papa, dicendo havere una lettera in cifra dal suo Serenissimo” (c. 298r/90).
[54] Il secolare legame fra impero ottomano e repubblica veneziana era basato soprattutto sul ricco scambio commerciale e sugli intrecci di confinanti possedimenti di terre e di isole nel Mediterraneo e nell ’ Egeo. Ognuna delle due parti conosceva e rispettava (finché poteva) la potenza e la debolezza dell ’ altra, per mantenere il più possibile un equilibrato rapporto diplomatico. E ad ambedue le potenze interessava mantenere questo statu quo. Significativo a questo proposito un avviso del 2 marzo 1588: il papa si lamenta con l ’ ambasciatore veneto a Roma perché la Serenissima non gli vuole vendere alcuni prigionieri turchi per collocarli nelle galere pontificie. Il motivo di tale diniego da parte dei Veneziani è chiarissimo: “Per non dare occasione al Turco di romperla con essi” (c. 98r/88). Era quindi normale che le notizie da quel mondo parallelo che era l ’ ottomano provenissero in Europa da Venezia. Quando ad esempio giunge da Malta la notizia di un Bassà turco che si stava armando per andare a pirateggiare nell ’ Adriatico, a Roma si dice chiaramente che la notizia non è vera semplicemente perché Venezia non lo dice: “Qui non si crede, poiché Venetia (ove più si doveria sapere) non ne fanno mentione” (c. 295r/89). Anche quando si danno altre notizie riguardanti Costantinopoli si aggiunge quasi automaticamente la frase: “sempre che da Venetia si avisi il contrario” (c. 376v/89).
[55] Nella seconda metà del Cinquecento vennero potenziate le banche pubbliche di deposito e di giro per attutire i rischi che potevano sorgere nei trasferimenti di metalli preziosi: i mercanti depositavano presso il “Banco” della loro città il danaro in monete d ’ oro e d ’ argento e i pagamenti fra di loro sarebbero stati effettuati non in moneta corrente ma in “moneta di banco”, semplici girate sui libri contabili della banca. A Roma, alla fine del Cinquecento, un Banco fu annesso al monte di Santo Spirito. Lì i cambiavalute, negozianti, notai, scrivani e mercanti di ogni genere esercitavano i loro affari, sfruttando la vicinanza di S. Pietro con il Palazzo papale e della Zecca di Roma, nella zona che comprende oggi la via dei Banchi Nuovi e via del Banco di S. Spirito, vicino all ’ attuale Corso Vittorio Emanuele II. Si ricorreva “ai Banchi” anche per le scommesse di ogni tipo, non sempre viste di buon occhio dai papi, che cercavano con decreti di regolarle e spesso di proibirle. In realtà le scommesse divennero uno strumento di finanziamento per privati, governi e principi. La logica comune era il bisogno di denaro, crescente e urgente. L. PALERMO, Banchi privati e finanze pubbliche nella Roma del primo Rinascimento, in: “Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà nell ’ Europa preindustriale. Amministrazione, tecniche operative e ruoli economici”. Atti del Convegno, Genova, 1990, 2 vol., Genova, 1991, I; S. TABACCHI, Il controllo sulle finanze delle comunità negli antichi Stati italiani, in “Storia, amministrazione, costituzione. Annali dell ’ istituto per la scienza dell ’ amministrazione pubblica”, IV, 1996, p. 81-115 (in part. p. 89-93 per quanto riguarda lo Stato pontificio; R. COLZI, Il Monte non vacabile di S. Spirito, in Archivio della Società Romana di Storia Patria, n. 116, 1993, pp. 177-211.
[56] D ’ Onofrio, op. cit. p. 530.
[57] ORBAAN, op. cit., pp. 279-280.
[58] Concordo in pieno con tale giudizio positivo circa la veridicità delle notizie che provenivano da Venezia, che fu sempre “costretta” ad una duplice politica estera, dovendo guardare a Occidente come parte integrante di quella civiltà cristiana, ma anche a Oriente per la sua natura di civiltà marittima e commerciale. Quando, dopo la battaglia di Lepanto, l ’ impero ottomano si chiuse polemicamente al mondo cristiano, Venezia riuscì nel 1573 (in opposizione culturale al modello ideologico e bellicista della Spagna di Filippo II) a stringere un patto con la “Porta” ottomana, riuscendo così a mantenere aperto il dialogo con il sultano. Sui rapporti di Venezia con il mondo ottomano vedi C. PINGARO, Serenissima, inquieta. Venezia tra Oriente e Occidente nel secondo Cinquecento. Aracne 2018.
[59] BELTRAMI, op. cit., p. 23, in D ’ ONOFRIO, op. cit. p. 534.
[60] SESTIERI LEE, Avvisi a stampa e manoscritti nella Roma del ’ 500. op. cit. p. 84.
[61] D ’ ONOFRIO, op. cit. p. 539.
[62] Sull ’ immancabile connubio fra verità e qualche “furfanteria” menantesca si legge: “La razza di costoro è tutta di forfanti insolentissimi, et sotto l ’ ombra del gran pericolo fanno mille gabarie; ma chi n ’ ha bisogno convien lasciarsi gabbare”. BELTRAMI, op. cit. p. 44.
[63] Il termine “huomo espresso” si trova in una relazione del 6 ottobre 1587 giunta a Roma da Costantinopoli e raccolta a Praga (c. 460r/87). Nella stessa pagina troviamo l ’ affermazione: “Per una staffetta venuta in diligenza s ’ intende che...”.
[64] Si parla di una apposita “caravella d ’ avviso” quando una di queste, probabilmente spagnola, era stata sequestrata dagli inglesi: “Confermano che in Londra fosse gionta la caravella d ’ Aviso presa” (c. 362r/89). Da Càttaro si invia, con la prima nave che parte, una notizia non ancora completa, promettendo di riparlarne con la partenza della prossima nave: “Hora che parte la fregata, e però non le posso dir altro, riserbandomi il resto a quest ’ altra fregata” (f. 360r).
[65] O. PASTINE, L ’ organizzazione postale della repubblica di Genova, in Atti della Società ligure di storia patria, LIII, 1926, p. 340; C. FEDELE, Le antiche poste. Nascita e crescita di un servizio postale (secoli XIV-XVIII), In: C. FEDELE, M. GALLENGA, “Per servizio di Nostro Signore”. Strade, corrieri e poste dei Papi dal Medioevo al 1870. Quaderni di storia postale n. 10, Prato 1988; B. CAIZZI, Dalla posta dei re alla posta di tutti. Territorio e comunicazioni in Italia dal XVI secolo all ’ Unità, Franco Angeli ed, Milano 1993.
[66] “I mercanti disponevano di reti proprie per la trasmissione delle notizie, anche se non nella forma rielaborata dell ’ avviso. Da secoli potevano contare su un sistema capillare di appoggi in Europa e nel Mediterraneo costituito da filiali, agenti, colonie mercantili, corrispondenti, consolati, capace di trasmettere con tempestività quelle notizie indispensabili per l ’ agire commerciale: evoluzione dei prezzi, arrivi di navi da carico e di carovane dall ’ Oriente, iniziative e accordi commerciali, fallimenti o persone in viaggio: potevano non arrivare o arrivare dopo molto tempo”. INFELISE, La circolazione dell ’ informazione commerciale, cit. p. 508).
[67] DELUMEAU, op. cit. p. 30-31. “Infatti egli costituì una “congregazione delle strade” e fin dal 1587 nominò un commissario generale per il restauro delle strade, dei ponti e delle fontane dello Stato, con poteri quasi dittatoriali: costui poteva aprire strade, demolire edifici ingombranti, tagliare proprietà. Le autorità gli dovevano assistenza... Ma questo bel programma sembra sia scomparso con suo autore”.
[68] “L ’ invio di corrieri straordinari ha un costo estremamente elevato rispetto al servizio ordinario... Un invio da Parigi a Bruxelles costa uno scudo servendosi della posta reale, trentacinque se si utilizza un corriere straordinario. Un corriere straordinario dai Paesi Bassi alla Spagna costa quattrocento ducati, dalla Sicilia alla Spagna trecentosessanta, più della paga annuale di un capitano di galera o dello stipendio di un professore di università. Tale soluzione è però inevitabile di fronte alla disorganizzazione delle reti postali ordinarie dovuta alle guerre di religione in Francia e nei Paesi Bassi, e sovrani e ambasciatori dispongono di corrieri privati”. A. TALLON, L ’ Europa del Cinquecento, op. cit., p. 204.
[69] Trovo questa comparazione di prezzo in DELIMEAU, op. cit. p. 21: “Per andare da Bologna a Roma, nel 1590, una lettera al di sotto di 28 grammi paga 1 baiocco (= gr. 0,30 d ’ argento fino); una lettera più pesante, 4 baiocchi ogni 28 grammi; un pacco, 8 baiocchi per libbra (di gr. 339). Per spedire da Roma in Spagna una lettera sotto i 28 grammi, una spesa di 25 baiocchi (gr. 7,35 di argento fino. È il prezzo di 10 o 12 chili di pane”. In T. PLEBANI, op. cit. p. 54 trovo altro riferimento sui costi di una spedizione: “Per ricevere o spedire una lettera di un foglio nel 1588 da Roma a Bologna, all ’ interno dello Stato pontificio, secondo la “Tariffa” pubblicata dalla stamperia dei Blado (Tasse da osservarsi dal General Maestro delle Poste di N. S. & suoi deputati per Roma & per tutto il Stato Ecclesiastico. Roma. Heredi d ’ Antonio Blado 1588), bisognava pagare 2 baiocchi. Un baiocco allora equivaleva a granno 0,30 di argento e consentiva l ’ acquisto di più di 2 chili di pane”.
[70] “In casi di estrema urgenza Roma è solo a un giorno da Napoli o da Firenze, 2 da Milano o Venezia, 3 da Trento, 7 da Monaco, 12 da Anversa, 16 da Saragozza. Tali records rappresentano la contrazione massima che gli uomini del XVI secolo sono in grado di far subire al tempo e allo spazio su itinerari terrestri”. DELUMEAU, op. cit. p. 17.
[71] E. STUMPO, La gazzetta dell ’ anno 1588, op. cit. p. XI.
[72] R. CHARTIER, Inscrivere e cancellare. Cultura scritta e letteratura dall ’ XI al XVIII secolo. Ed. Laterza 2006, pp. 92-93.
[73] J. SOMMERVILLE, The News Revolution in England. Cultural Dynamics of Daily Information. Oxford University Press, New York-Oxford 1996, p. 28.
[74] F. DAHL, A Bibliography of English Corantos ad Periodical Newsbooks. 1620-1642. London 1952, p. 23.
[75] SESTIERI LEE, op. cit. p. 83.
[76] ORBAAN, cit. p. 277.
[77] G. LETI, Vita del Catolico Re Filippo II Monarca delle Spagne, Coligni 1679, parte seconda, p. 266.
[78] C. MARCHEGIANI, Un ‘pensiero gloriosissimo’ di Sisto V: il santo sepolcro da Gerusalemme a Roma, in “Come a Gerusalemme”. Ed. del Galluzzo, Firenze 2013, pp. 741-771.
[79] L. von PASTOR, Storia dei papi, vol. X p. 5.