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PROPRIETA' DEI PERETTI

Camilla e Michele Peretti al Castello di Torre in Pietra

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"...La tenuta di Torre in Pietra è una delle più ampie e di più antica memoria che si possono trovare nell' agro romano che si volge verso il mare, un' area nel corso dei secoli più e più volte abbandonata all' incuria, sede di terre spesso paludose e malsane, necessarie di bonifiche avvenute solo in tempi recenti. Ma di questo parlerò oltre. Del Castrum Castiglionis, poi Casale di Torre in Pietra, si hanno notizie già a partire dai secoli XIII e XIV, quando era proprietà della famiglia Normanni-Alberteschi. Nel '500 passa ai Massimo e poi a Camilla Peretti, potente sorella di papa Sisto V, che l' acquista nel 1590. In seguito verrà ereditata dal nipote Michele, che introduce ingenti opere di costruzione. Nel 1639 passa ad Orazio Falconieri, ed è sotto questa famiglia che raggiunge i suoi più grandi splendori, con i lavori voluti nel '700 da Alessandro, che chiama a intervenire architetti quali Ferdinando Fuga e pittori quali Pier Leone Ghezzi, per realizzare opere destinate a trasformare quello che originariamente era un casale di campagna in una ricca ed elegante residenza nobiliare. La decadenza inizia fin dalla fine del Settecento, per le alterne fortune della famiglia dei proprietari, e arriva alla vendita, nel 1877, ai fratelli siciliani Florio, che la mantengono fino al 1922. La nuova proprietà, la Bonifiche Agrarie, la venderà a sua volta nel 1926 a un compratore d' eccezione. è a quest' altezza della sua lunga storia che Torre in Pietra comincerà a vivere una nuova vita, attiva fino ad oggi. Andiamo con ordine. Chi aveva comprato quella tenuta all' origine di circa 1.500 ettari si chiamava Luigi Albertini. Senatore del Regno, direttore e comproprietario del "Corriere della Sera", era un deciso oppositore di Mussolini. Per questa ragione era stato estromesso dalla direzione del giornale e costretto a vendere le sue quote della società. Con la liquidità conseguente, assieme al figlio Leonardo e al genero Nicolò Carandini aveva deciso di acquistare un vasto appezzamento di terreno ad uso agricolo e allevativo vicino a Roma. I lavori di bonifica procedettero per circa vent' anni, ed ebbero come risultato la creazione di un' azienda modello, all' avanguardia degli strumenti e delle tecniche di produzione, in particolare per quanto riguarderà il fortunato allevamento di mucche da latte. (...)" Rocco Carbone http://ricerca.repubblica.it/repubbli...

IL FEUDO DI MENTANA AL TEMPO DI MICHELE PERETTI di Roberto Tomassini.

1. Le origini feudali di Mentana

Il castello di Mentana non è d'origine feudale ma militare, com'è riconosciuto dagli storici. È sufficiente a dimostrarlo l'antichissima origine della città di Nomentum e, seppure si ha notizia dell'esistenza “ab immemorabilis” di una rocca o castello nella zona, la sua natura ed il suo scopo la fanno piuttosto ritenere d'origine militare che non d'origine feudale1.

Tali caratteristiche furono mantenute anche quando il Castello passò, nel X secolo, all'antica e potente famiglia romana dei Crescenzi, i cui membri furono in seguito appellati “Nomentani” appunto perché Nomento costituiva la loro Rocca in terra sabina. I Crescenzi rappresentarono sempre la nazionalità romana e le aspirazioni repubblicane contro papi e imperatori. In una tale visione, connessa al fatto che non giunsero mai a un grado superiore a quello di “patritius” e quindi non si fregiarono mai di titoli nobiliari, appare confermata la natura non feudale di Mentana a quell'epoca.

Il passaggio del territorio nomentano ad un regime feudale, si può far risalire, invece, al tempo di papa Gregorio VII (1073-1085), quando questi concesse Nomento, ridotta ormai allo stato di castello, in seguito alla distruzione dell'antico abitato compiuta nel 1060 da Roberto il Guiscardo (detto perciò il Nomentano), al Monastero di San Paolo fuori le mura. È precisamente da questo momento, infatti, che non è più possibile disconoscere il carattere feudale del tenimento di Mentana: ciò che seguì è storia assai nota.

Tra il XIII ed il XIV secolo divennero signori di Mentana i Capocci (probabilmente si trattò all'inizio di una semplice concessione enfiteutica, dipendente sempre dai monaci di San Paolo f.l.m., che in seguito di tempo si tramutò in vero e proprio possedimento feudale).

Il giorno 8 ottobre 1407, il Castello di Nomento, passò dalla famiglia Capocci a quella degli Orsini che lo possedettero fino al 1594 quando, il 12 luglio, Virginio e Paolo Orsini, lo vendettero, con il territorio annesso, al principe di Venafro Michele Peretti.

Nell'anno 1655, il principe Marcantonio Borghese, nipote di Paolo V, acquistò la Tenuta da Michele Peretti Giuniore e dall'abate Paolo Peretti Savelli. La famiglia Borghese rimase proprietaria della Tenuta fino al 1898 allorché passò di proprietà dell'Istituto di Credito Fondiario del Banco di Napoli. Inoltre, prendendo spunto dalla motivazione di una sentenza emanata il 27 novembre 1900 dalla Corte d'Appello di Bologna, relativa alla controversia civile tra il principe don Paolo Borghese, già proprietario della Tenuta di Mentana e il Comune di Mentana, possiamo esaminare anche da un punto di vista giuridico il carattere feudale di Mentana in quell'epoca, dalle seguenti motivazioni:

1) Lo Statuto del Castello di Mentana, redatto sotto Camillo Orsini intorno al 1552, è ritento unanimemente atto d'imperio, emanato cioè nell'esercizio di cui era investito il feudatario; inoltre lo stesso capitolo 222 del libro VI, contiene l'impronta della soggezione feudale del territorio nomentano nella locuzione “nostri tenimenti”; infatti, la parola tenimenti nel linguaggio del tempo, da un punto di vista tecnico, significava “beni” che sono tenuti da un qualche signore feudale, una volta avvenuta la successione intestata nei subfeudi.

2) Tale tenimento, comprendente tutto il territorio di Mentana, come risulta da vari documenti, ebbe sempre carattere di unicità dall'epoca in cui era posseduto da Camillo Orsini a quella in cui pervenne, col tramite della famiglia Peretti, alla Casa Borghese. E l'essere la totalità del territorio di appartenenza del feudatario, nega l'allodialità perché in contrasto con le esigenze della popolazione, la quale doveva avere necessariamente, a suo vantaggio, un qualche diritto sul territorio.

3) Nell'anno 1579, il pontefice Gregorio XIII, con un suo Breve del 28 settembre, eresse Mentana in Marchesato per Latino Orsini: è questo un ulteriore atto che attesta il carattere feudale del territorio di Mentana. Si tratta, infatti, di un titolo dato al proprio feudo dal signore feudale (in questo caso il Pontefice) a favore del feudatario (concessionario del feudo). Orbene, il trasferimento del 1655, Peretti - Borghese, avvenne “cum titulo Marchionatus”; ciò significando che oltre al possesso del latifondo, passavano all'acquirente (Marcantonio Borghese), tutte le attribuzioni giurisdizionali a quello inerenti, proprio di chi è investito in effettivi poteri quale feudatario; ed in conformità di tutto questo, risulta dagli atti di trasferimento che gli abitanti di Mentana, nella loro qualità di vassalli e di sottoposti, nel giorno successivo alla stipulazione del contratto, in una stanza attigua alla chiesa parrocchiale, furono convocati e prestarono giuramento di fedeltà e omaggio nelle forme consuete che secondo i feudisti “indicat praecipue qualitatem feudalem".

4) Il contratto per l'acquisto della Tenuta di Mentana da parte del principe Michele Pertti, fu autorizzato con specifico documento del Pontefice allora regnante, Clemente VIII, emanato su richiesta dei contraenti e in conformità della costituzione di Sisto V, per la quale era vietato, “...senza la conoscenza ed il consenso della Sede Apostolica, vendere o trasferire da uno ad un altro, castelli e beni giurisdizionali (su cui il feudatario esercitava cioè la giurisdizione), affinché la stessa sapesse quali persone fossero suoi suddti nel suo stato, la qualità giurisdizionale e di barone o quella di Dominum dei feudatari...”.

Tale autorizzazione del Pontefice rileva ancora di più il carattere feudale del Castello e del suo territorio: non si dimentichi, infatti, che il Castello di Mentana apparteneva ai beni della Chiesa, e che quindi solo a questa spettava la facoltà di concederlo in beneficio o di autorizzare il trasferimento; ciò nella qualità di Signore feudale che rivestiva il Pontefice su tutti i beni del territorio appartenente alla Santa Sede.

2. L'acquisto del feudo di Mentana

2.1. Mentana nell'ultimo periodo degli Orsini

Nel 1559, dopo aver trascorso una vita assai movimentata che lo aveva condotto in gran parte d'Italia e fino alle lontane Fiandre, prestando i propri servigi militari al soldo di vari regnanti, moriva il duca Camillo Orsini di Limentana.

Egli già da tempo si era ritirato nel suo tenimento del Castello di Mentana, dedicandosi quasi esclusivamente alla cura dei suoi beni e certo vi profuse tutta la sua esperienza di sagace amministratore che univa a quella di soldato per aver retto il governo di grandi città come Verona e Parma, divenendo governatore generale dello Stato della Chiesa sotto il pontificato di Paolo IV (1555-1559). Infatti, le pur scarne notizie biografiche ci informano a questo proposito che seppe essere governatore giusto ed equo. Con la sua scomparsa, secondo Tomassetti, finisce l'età media della storia di Mentana.

Nel suo ultimo testamento Camillo Orsini nominò eredi i suoi due figli Giovanni e Paolo che poi furono sostituiti dai loro eredi maschi, mentre la linea femminile fu sempre esclusa, essendo proibita qualsiasi divisione o ipoteca sul patrimonio, se non per il riscatto dalla prigionia o per altre cause di forza maggiore alle quali non fosse stato possibile provvedere in altro modo. Solo in questi specifici casi, infatti, sarebbe stata annullata la disposizione del fedecommesso. In pratica, quindi, i due destinatari del fedecommesso Orsini, godevano soltanto dell'usufrutto generale dei beni con l'obbligo di conservarli per restituirli ai suoi successori. Per questi, infatti, vigeva il divieto assoluto di alienazione, ipoteca, donazione, cessione e qualsiasi altra forma di suddivisione dell'asse patrimoniale, che peraltro era soggetto obbligatoriamente all'inventario.

Mentre erano in vita Paolo e Giovanni Orsini, Camillo Orsini dovette però cambiare la disposizione testamentaria e gli eredi acquistarono i beni gravati da circa 70.000 scudi di debiti, soprattutto a causa di spese di dote per la restituzione a Brigida di Anguillara, prima moglie di Camillo Orsini, e per la dote promessa alla figlia Guglia, avuta con la sua seconda moglie, Elisabetta di Boglione.

Inoltre, morto Giovanni senza eredi maschi, con l'unica figlia Olimpia, la moglie Porzia di Aguillara, dopo aver preso la parte che le spettava per dote e dopo aver pagato altri debiti, l'eredità passò a Paolo come stabiliva il testamento paterno. Questi per riscattarne il possesso sono stati costretti a vendere al fratello Latino, con patto di riscatto, Poggio Catino e Catino per 20.000 scudi e porre un censo di 26.000 scudi sulle tenute di Mentana, sempre in favore di Latino e altre fideiussioni per diversi acquirenti: in questo modo poté assolvere il credito di Porzia ascendente a 306.000 scudi e a circa 12.000 scudi per la dote di Olimpia Orsini.

Intanto, come già accennato, il Castello di Mentana fu eretto in Marchesato da papa Gregorio XIII per Paolo e Latino Orsini con i relativi privilegi e prerogative e, morto Latino, per i suoi eredi in perpetuo con divieto di dividere la proprietà come risulta dalla Lettera Apostolica spedita il 9 luglio 1576. Paolo donò il feudo di Mentana a Latino con istrumento fatto a Venezia il 10 agosto 1580, con l'onere di provvedere alla dote della figlia D. Latina Orsini in ragione di 14.000 scudi. Latino assolse alle disposizioni con la vendita dei censi, per cui fu costretto a contrarre nuovi debiti. Latino prima di partire per gli Stati Orientali al servizio della Repubblica di Venezia, istituì eredi i suoi due figli Fabio e Virginio Orsini con fedecommesso.

Quando Fabio e Virginio Orsini entrarono in possesso dell'eredità, il loro patrimonio risultava, perciò, gravato a tal punto dai debiti che si temeva alla fine di veder dissolto l'intero patrimonio se non vi fosse posto rimedio. Decisero pertanto di vendere parte dell'eredità con alcuni Castelli e Tenute cui non ostasse il regime fedecommissorio, per far fronte ai debiti.

Quindi deliberarono di vendere il Castello di Mentana e per superare le difficoltà del fedecommesso chiesero le previste autorizzazioni.

Avuto il consenso del Pontefice ebbero facoltà di separare i loro beni per assolvere i loro debiti e furono costretti a vendere nel 1588 a Bernardino Savelli per 32.000 scudi Poggio Catino e Catino per soddisfare l'impegno della dote di Olimpia e Latina Orsini e per i debiti più urgenti.

Quindi, dopo l'espletamento di lunghe pratiche e dopo aver prodotto numerosi testimoni, Fabio e Virginio Orsini ottennero la sentenza definitiva che dava loro facoltà di dividere l’asse ereditario che in totale ascendeva a 350.000 scudi (escluse alcune vigesime spettanti al monastero di San Salvatore in Lauro) ed ebbero licenza di vendere la tenuta di Monte Gentile di 600 rubbi ed altri terreni ad Agostino Pinelli il 20 dicembre 1589.

La tenuta di Tor Lupara o Santa Margherita fu venduta a Flaminio Togolo, vendita parziale di Palazzo Giordano a Roma ed inoltre accesero un’ipoteca dotale sulla tenuta di Greppe a favore di Lotario Conti per l’eredità di Clarice Orsini loro sorella.

Inoltre, il 3 gennaio 1592, concessero in affitto il feudo di Mentana al genovese Filippo Ravenna, mercante in Roma, con corresponsione annua fino all’estensione di un censo a suo favore, a saldo di un debito di 1800 scudi che avevano nei suoi confronti.

2.2. L’acquisto del Feudo da parte del Principe Michele Peretti

Intanto Fabio e Virginio Orsini, avevano contratto nuovi debiti ed ormai era facile prevedere che alla fine il loro patrimonio si sarebbe dissolto, pertanto l’unico rimedio era quello di vendere beni stabili, ma non avendone altri che potessero coprire per intero la cifra necessaria, decisero, come accennato, di vendere il Castello di Mentana e dopo aver ascoltato amici e intermediari decisero di accogliere l’offerta del principe Peretti, marchese d’Incisa, quale migliore offerente per il prezzo di 250.000 scudi, previa autorizzazione di papa Clemente VIII e il relativo trasferimento del fedecommesso non ostante la citata bolla di Sisto V concernente il divieto di vendere i beni giurisdizionali senza licenza della Sede Apostolica rilasciata il 15 luglio 15942.

L’autorizzazione riguardava il Castello di Lamentana con tutto il suo territorio comprese le tenute concesse in affitto a Filippo Ravenna ed altre tenute dell’agro nomentano che sarebbero dovute essere recuperate affinché il Feudo non restasse smembrato.

Per questo, dopo aver ricevuto assicurazioni dal principe Peretti, Fabio e Virginio Orsini stipularono separati contratti con i diversi proprietari con la promessa di vendita al principe. Il contratto di vendita del Feudo di Mentana fu siglato presso il notaio Antonio Mainardi in Roma il 31 luglio 1594.

Il tenimento comprendeva i terreni con i quarti di Formelluccio, Gattaceca, Montepizzuto, Trentani, Conca, XII Apostoli, Tor Lupara o Santa Margherita, ed altre terre e tenute, non espresse, ma che erano comprese nell’affitto, che allora conducevano gli eredi di Filippo Ravenna. Tra i beni stabili di Mentana con il palazzo grande e le altre abitazioni, la stalla grande e il fienile vicino alle mura, la rocca ed il fortilizio ed altri edifici dentro e fuori la mura, con l’ospizio, il forno e tutto il borgo esistente davanti alla porta del castello, la vigna grande con altre vigne, arboreti e campi, fondi rustici.

Al principe Peretti era trasferita la piena giurisdizione del "mero e misto imperio con podestà di spada”, vale a dire che poteva giudicare per cause civili e penali; l’esazione dei proventi fiscali delle pene transatte, la bagliva "che riguardava la giurisdizione per i piccoli reati”; la mastrodattia che riguardava la percezione di proventi derivanti dalla redazione degli atti processuali; lo jus marchii
o zecca di pesi e misure. L’entità giuridico-armministrativa entro la quale si esercitava il potere locale era denominata "Comunità”. La nomina del sindaco e dei due eletti (collaboratori e controllori del sindaco) della Comunità spettava al signore. Il signore amministrava anche lo jus prohibendi della caccia, il passo e passetiello, che erano modi per la riscossione di una tassa di circolazione. Inoltre vi erano i monopoli che il signore aveva per il forno, i molini e le taverne.

Illuminante, a tal riguardo, l’analisi di Guido Pescosolido che fotografa perfettamente la situazione dell’amministrazione feudale nel corso del XVI secolo. “Nel Cinquecento, pur nella variabilità delle diverse situazioni locali, la sfera dei poteri giurisdizionali del barone continuò ad essere molto estesa: prime cause civili, criminali e miste; secondo e in qualche caso anche terzo grado di giudizio; potestà discrezionale di remissione dei delitti, acquisizione dei proventi delle pene comminate e dei beni confiscati senza obbligo di rendiconto; forgiudica, ossia diritto di condanna, quasi sempre con diritto di confisca dei beni, nei riguardi di persone bandite e di latitanti ancora dopo un anno; nomina di giudici e ufficiali; concessione delle cosiddette quattro lettere arbitrarie, ossia della possibilità per il feudatario di trasformare pene corporali in pene pecuniarie. Ai poteri giurisdizionali si aggiungevano quelli specificatamente economici, parte cospicua dei quali derivava dallo stesso esercizio dei diritti giurisdizionali (bagliva, portolania, mastrodattia, adoa, catapania). A questi redditi si aggiungevano quelli ricavati dallo sfruttamento diretto delle terre feudali, dalla percezione di terraggi, erbaggi, canoni per la concessione enfiteutiche. Terza componente della rendita feudale era quella derivante dall’affitto dei fabbricati e della gestione diretta o dalla concessione in affitto di impianti di prima trasformazione di prodotti agricoli (mulini, gualcherie, trappeti) la cui attività spettava in privativa al barone. Di queste tre fonti di entrata la più importante rimase sempre e quasi ovunque quella derivante dalla gestione diretta o indiretta delle terre3.

La Comunità di Mentana aveva per il proprio bilancio poche entrate: lo jus del pane a vendere senza gabella, lo jus macellandi, la proprietà di botteghe municipali per la vendita di olio, salumi, strutti, ecc. Inoltre, percepiva vari altri cespiti derivanti da concessioni di terreni o usi.

Il prezzo della vendita fu pattuito in 250.000 scudi, della qual somma si convenne, secondo il Breve rilasciato da Clemente VIII per l’autorizzazione alla vendita, che all’atto della stipulazione fossero pagati soltanto 178.000 scudi, ed il resto, dopo che fossero state le pratiche, per il trasferimento dei fedecommessi, e spedite le relative lettere di autorizzazione. Nel contratto Peretti si impegnava a riservare ai fratelli Orsini i frutti della vendemmia dell’anno in corso e degli altri prodotti agricoli fino al mese di settembre incluso.

3. L’acquisizione del feudo

Seguire la cerimonia d’acquisizione del feudo può servire per comprendere la mentalità dei dominanti e dei dominati, i loro simboli di potere, gli elementi materiali su cui può fondarsi il diritto di possesso. Era una rituale affascinante che si svolgeva davanti tutta la comunità che seguiva passo passo i gesti che il rappresentante compiva secondo il prescritto cerimoniale del Principe Peretti. L’evento è stato registrato in un atto notarile, redatto dal notaio Antonio Mainardi di Roma, che contiene il verbale della presa di possesso di alcune terre e del castello di Mentana da parte del rappresentante del principe Peretti4. Trascorso ormai l’anno dall’acquisto del feudo e portate a termine tutte le formalità contrattuali, il principe Peretti nominò un suo procuratore, Marco Tullio Iannuzzi, per prendere possesso del Castello di Mentana. Da parte loro, anche Fabio e Virginio Orsini, venditori, incaricarono Giovanni Mazzato per espletare le formalità della consegna.

I due procuratori stabilirono di recarsi a Mentana il 1 marzo 1595 per portare a termine i loro rispettivi incarichi. Entrati nel Castello di Mentana, furono ricevuti nel salone del palazzo dove convennero i Massari e gli altri ufficiali della comunità, esposero loro i dettagli dell’avvenuta vendita fra i fratelli Orsini ed il principe Peretti e contestualmente notificarono il relativo atto notarile facendo il giuramento sopra la consegna e ricevettero il giuramento dei presenti a favore del Compratore e dei suoi successori. I Massari furono quindi invitati a convocare quanto prima il Consiglio della Comunità. Quindi cenarono e pernottarono al Palazzo.

II giorno seguente i due procuratori con il notaio e molte altre persone vistarono la chiesa "sub invocatione Beatae Mariae Virginis sitam in Arca seu Platea dicti Castri” dove ascoltarono la Messa.

Subito dopo la funzione religiosa, M. Tullio Iannuzzi, costituito procuratore del compratore, alla presenza del notaio, dei testimoni e delle persone del Castello, per mano del procuratore degli Orsini, fu introdotto nel palazzo, in questo modo egli prendeva possesso reale ed attuale della proprietà.

M. Tullio Iannuzzi entrando in tutte le stanze, ai diversi piani del palazzo, aprendo e chiudendo porte e finestre, dimostrava di aver preso possesso dell’immobile. Quindi, affacciatosi ad una finestra rivolse lo sguardo a tutto il paese e agli edifici esistenti all’interno e all’esterno del Castello e a tutto il territorio: in questo modo con lo sguardo prese possesso di tutto il Castello e dell’intero territorio feudale di Mentana. Iannuzzi a questo punto dichiara che non è sua intenzione mandare via il precedente affittuario, ma anzi in nome di Michele Peretti intende continuare nel miglior modo e in una sala del palazzo confermò, alla presenza di testimoni, l’affitto della tenuta ai fratelli Ravenna.

Dopo questi fatti, il 7 marzo 1595, fu convocato il Consiglio della Comunità e di tutti i capifamiglia i quali affermano di avere piena cognizione della vendita del Castello e della sua giurisdizione avvenuta, come risulta da pubblico atto notarile che viene mostrato e reso noto nel suo contenuto dal notaio il quale afferma che è presente un sufficiente numero di congregati in rappresentanza di tutta la comunità. Egli mostra a tutti il documento di vendita del feudo della terra di Mentana, fatto dai fratelli Fabio e Virginio Orsini il 21 luglio 1594 a vantaggio del principe Michele Peretti. Il contratto viene letto a tutti.

Quindi M. Tullio Iannuzzi dichiara di accettare e Giovanni Mazzetti, procuratore del venditore, effettua la consegna del Castello di Mentana.

Terminato il consiglio, gli uomini del Castello giurarono fedeltà e obbedienza secondo un’antica formula, toccando ciascuno con le mani il libro dei Vangeli. M.Tullio Innuzzi dichiarò di accettare il giuramento. I predetti consiglieri e gli uomini prestarono obbedienza e, scoperto il capo, piegarono il ginocchio facendo una riverenza e riconosciuta la superiorità dei Massari furono licenziati con l’invito a riunirsi presso la porta principale del Castello. Qui iniziò la liturgia della presa di possesso. Alla presenza del procuratore degli Orsini, gli furono consegnate le chiavi della città. Iannuzzi avendo in questo modo ricevuto la piena potestà, entrando nella porta in segno di vero possesso, chiuse la porta con le predette chiavi per aprirle subito dopo.

Il giorno seguente M.T. Iannuzzi con il notaio e con G. Mazzetti, presente e consenziente, si recarono presso i seguenti poderi: uno chiamato “Vigna Grande del Signore” e l’altro “Giardino” e camminando attraverso il campo e tirando su le zolle, estirpando l’erba e rompendo i rami degli alberi, chiudendo e aprendo le cancellate e compiendo altri simili atti, dimostrava di aver preso possesso reale ed attuale dei due poderi.

Il terzo giorno M.T. Iannuzzi fece la stessa cosa attraversando il territorio di Mentana e cavalcando nei territori feudali, compiva gli stessi gesti, toccando i confini dei vari poderi. Poi M.T. Iannuzzi amministrò la giustizia, non tanto accettando le cause civili e penali, ma confermando la potestà di giudicare. Nello stesso giorno M.T. Iannuzzi presente il notaio, i testimoni e con il consenso di G. Mazzatto entrò nel Borgo di Mentana e visitò la nuova stalla grande, la taverna, l’ospizio degli infermi ed entrando e camminando prese possesso e dichiarò di conservarlo nel migliore dei modi.

Nella stessa maniera prese possesso della casa chiamata “Palazzetto” e di tutte le altre abitazioni poste nell’area del Castello.

4. Il territorio

Il territorio del feudo di Mentana acquisì il suo definitivo assetto nel 1594, quando i fratelli Fabio e Virginio Orsini vendettero ad un certo Flaminio Tugolo, di Colle Vecchio in Sabina, la Tenuta di Tor Lupara, detta anche di Santa Margherita per una somma di 20.000 scudi, con patto di rivenderla, unitamente alla Terra di Mentana, al principe Michele Peretti, per regolare alcuni debiti5.

Il 21 luglio 1594, infatti, Michele Peretti Marchese d’Incisa acquistò dai fratelli Orsini il Castello di Lamentana con il suo territorio che aveva per confini Castel Sant’Angelo in Capoccia da un lato, Castel Deodato dall’altro e le terre del territorio di Monte Rotondo, la Tenuta della Chiesa di San Giovanni in Laterano, poi detta “La Cesarina”, e la Strada Romana, ossia la Via Nomentana.

Il Territorio comprendeva i terreni dei vocaboli dei quarti di Formelluccio, Gattaceca, Monte Pizzuto, Trentani, Conca e XII Apostoli, Tor Lupara ossia Santa Margherita ed altre tenute e terre non espresse, ma che nel momento della vendita erano comprese nell’affitto che allora conduceva Filippo Ravenna.

Quanto al Borgo di Mentana, esso comprendeva il Palazzo grande con altre abitazioni e case poste tutt’intorno, una stalla grande e un fienile, nei pressi delle mura, la Rocca e fortilizi. Vi era un ospedale, un forno e un’osteria o taverna. Di fronte la porta del Castello si sviluppavano le prime case del Borgo e intorno alle vigne e gli orti dei particolari. Inoltre anche Monte Gentile entrò a far parte integrante del territorio di Mentana. In origine era un castello appartenuto a Lellio Capoccini al quale il Pontefice Giovanni XXIII nel 1412 diede facoltà di goderlo libero ed esente da ogni peso allodiale. Fu venduto agli Orsini e quindi, essendo quel Castello caduto in rovina, fu acquistata nel 1606 dal principe Michele Peretti ed unita al territorio di Mentana.

Documento di grande interesse è costituito dalla carta manoscritta dell’architetto Francesco Peperelli nel 1618 in occasione di una lite per il pagamento di vigesime fra i canonici di San Salvatore in Lauro ed il Principe Peretti. La carta, in grande scala, comprende il territorio di Mentana compreso fra la via Nomentana e la via Palombarese. Meticolosa anche la rappresentazione viaria con l’indicazione di numerosi ruderi e castra abbandonati, casali che il disegnatore con sensibile percezione del territorio ha riunito ai segni vivi del paesaggio a lui contemporaneo. La pianta è stata scoperta e studiata una ventina d’anni fa da Susanna Passigli. La rilevazione di questa pianta ha permesso una ricostruzione particolareggiata di quella che doveva essere la situazione del territorio di Mentana al tempo di Michele Pretti, agli inizi del XVI secolo6.

Vi erano due osterie, una nella terra di Mentana, affittata a scudi cento annui, all’interno del Borgo, l’altra nel Quarto del Carnaro, detta le Molette. Fontanili otto cioè Tabaldini (in seguito ristrutturato dallo stesso Principe Peretti), Formelluccio, Mezza Luna, Valle Cavallara, Carnaro, Fonte Nova, S.ta Margherita e Conca.

Casa della Vigna del Principe, l’odierna Vigna Santucci, e Casale di Greppe, con procojo, nel quale vi era uno Stallone con abitazione e fienile, provvista di cinque fontanili, cioè fontanile sotto il Casale, Fontanile della polledrara, Fonte Lettiga, Formello e Fonte Tonda.

Il Procoio di Greppe era un’ azienda per l’allevamento di bovini ed equini: si trattava di un sistema di edifici rurali comprendenti l’abitazione del proprietario e gli stanzoni dei lavoranti, le stalle per le vacche e i cavalli, i ricoveri per i carri e gli attrezzi da lavoro, i recinti all’aperto (le rimesse).

Il territorio secondo questa rilevazione, aveva quattro torri inabitabili, in pratica le due Torri, Torricella, S. Biagio e Tor Lupara. Dal punto di vista della coltivazione, il territorio di Mentana fin dal tempo di Camillo Orsini, era diviso in quattro quarti, permettendo così ruotare ogni anno le colture sul terreno (seminando cioè grano dove il terreno era a riposo, legumi e avena dove l’anno prima c’era il grano e lasciando incolta una parte).

Anno primo: quarti di Tor Lupara e S. Lucia; Anno secondo Formelluccio, Forni, Mezzaluna; Monte de Porci e Tobaldini; Anno terzo Valle Cavallara, due Torri, e Carnaro (Monte del Carnale); Anno quarto: Conca, Dodici Apostoli e Torricella.

Il territorio feudale era attraversato da vari corsi d’acqua, alcuni conosciuti, altri un po’ meno, tributari, nella maggior parte, al fiume Tevere. Seguendo, infatti, la lettura della citata carta del Peperelli, ma anche degli inventari a nostra disposizione, si apprende che i confini del territorio seguono corsi d’acqua, e meno frequentemente dorsali e contrafforti montuosi; inoltre, i termini sono fissati in punti caratteristici come cime, fonti, confluenze e attraversamenti di corsi d’acqua, per lo più fossi di modeste dimensioni. Perciò per una ricostruzione topografica attendibile ci sembra opportuno, per quanto lo consentirà l’economia di questo scritto, tener conto principalmente degli elementi di oro-idrografia confrontati col territorio dell’epoca, ricostruito retrospettivamente, anche sulla scorta delle fonti scritte.

Pertanto, il confine di tale agro Nomentano, seguiva il fosso di Gattaceca che chiudeva il confine di Monterotondo con i quarti dei Forni e Formelluccio, Fosso di Santa Colomba, che solcava il Quarto della Conca, e chiudeva il confine con la tenuta della Casa Corsini, Fosso di Greppe, segnava il confine con Sant’Angelo per poi confluire nel Fosso delle Molette, Fosso dei Mancini, che si univa con quello di Santa Lucia, formando il confine tra Mentana e la tenuta di Marco Simone, il Fosso Trentani, infine, chiudeva i beni della Comunità di Mentana, passando intorno alla Selva dei Cavalieri per entrare nel territorio di Monterotondo.

La vita di Mentana e dei suoi abitanti è stata strettamente legata alla campagna e al raccolto annuo e di conseguenza dipendente dagli eventi naturali, quali tempeste e cattive stagioni e determinavano periodi di carestia accentuate molte volte da altri fattori come gli eventi bellici o le pestilenze che spesso decimavano il raccolto e riducevano gli abitanti alla fame.

Nel XVII secolo Mentana era abitata da circa 150 persone (100, secondo la visita pastorale del Card. Paleotti del 1595), ma ovviamente dobbiamo ipotizzare che il numero degli abitanti sia sempre oscillato tra 150 e 200 persone. La quasi totalità della popolazione di Mentana era costituita da braccianti che avevano in affitto dal principe campi di varie estensioni ed erano inoltre sottoposti a prestazioni lavorative ogni qualvolta ciò fosse necessario e da "Massari” ossia mezzadri che coltivavano terreni di medie dimensioni. Si trattava, quindi, di famiglie che si occupavano di coltivare i campi e che il più delle volte vivevano in condizione al limite della sopravvivenza.

Nel 1615 compaiono nei libri contabili di Michele Peretti le registrazioni delle spese, riferibili alla conduzione dell’azienda di Mentana in cui spesso i diversi pagamenti sono semplicemente giustificati con un laconico "a bon conto di...” oppure "per i nostri Casali della Mentana”7.

Il fatto che spesso si usi la denominazione "Casali”, rivela che esistevano edifici isolati nella Tenuta di Mentana. La pianta disegnata dell’architetto Francesco Peperelli nel 1618, rivela in maniera evidente e ben si presta a un’analisi del territorio perché essa raffigura alcune suddivisioni del territorio sia di carattere amministrativo sia di carattere agricolo, oltre alla segnalazione di alcuni manufatti.

Nella pianta sono rappresentati schematicamente i centri urbani di Mentana e Monterotondo con le loro cinte murarie. Si distinguono altri centri minori, casali o castra, formati da alcune case, a volte con chiesa e campanile, il tutto circondato dalle mura. Unico tipo di opificio è segnalato presso l’abitato di Mentana, indicato col toponimo fornace di mattoni.

Attraverso l’esame dei pagamenti nei libri contabili si può individuare l’attività agricola ed economica, legata al mondo rurale, relativamente al periodo qui considerato, costituite soprattutto dall’allevamento e del loro commercio nei vari mercati come quello di Farfa.

Per questo periodo sono documentati altri tipi di attività e artigianato in particolare la fabbricazione della calce viva. Numerosi i riferimenti a questo proposito “Pagati ad Agostino e Lorenzo Parmeggiani, calcarali, della Mentana scudi 40 a costo della calce che fanno in detto locho a servizio della nostra fabbrica [di San Lorenzo in Lucina]”. Il 22 giugno 1624 “Pagati ad Agostino Parmeggiani scudi 87,50: sono per la calce per servizio della fabbrica di Santa Maria degli Angeli della Mentana”. Le zone del territorio mentanese dove era maggiormente abbondante la pietra calcare, materiale di partenza per la fabbricazione della calce, erano Gattaceca e Grotta Marozza, nella località che ancora oggi, assai significativamente, conserva il toponimo "Li Forni”.

A partire dal 1614, come emerge dal “Libro d'Istromenti delle possessioni in Mentana godute dall’Ecc.ma Famiglia Savelli8, che successe alla Famiglia Peretti, cominciò a diffondersi la pratica giuridica della concessione delle terre in enfiteusi sino alla terza generazione, sia mascolina che femminile, da parte del Principe ai contadini stabilmente residenti nel Castello di Mentana, affinché le coltivassero. L’enfiteusi era un contratto agrario con il quale il proprietario, in questo caso il Principe Peretti, concedeva in uso le proprie terre a un contadino-lavoratore che ne assumeva la gestione con l’obbligo di apportare miglioramento al fondo ricevuto. Il contadino da parte sua s’impegnava a "bene et deligenter colere” l’appezzamento ricevuto e a non venderlo ne subaffitarlo e, se vi fossero state querce, a non tagliarle senza debita licenza. Ogni anno nel mese di settembre, il giorno della festa di Sant’Angelo, il contadino si impegnava a versare alla Curia di Mentana un canone o responsione di quattro giulii per ogni scorzo di terreno. In genere si trattava di piccoli appezzamenti di terreno soprattutto coltivati a vigneto, ma figurano anche albereti e piccoli orti.

Il principe Michele Peretti affittava la Tenuta di Mentana che gli procurava una rendita di 3.200 scudi, ma riservava per se un vasto latifondo ai confini della grande proprietà che preferiva amministrare direttamente, attraverso propri salariati. Si trattava della fascia collinare che da Vigna Santucci con relativo casale, evidentemente il centro dell’azienda, indicata nelle carte dell’epoca come Vigna di Sua Ecc.za, digradava verso nord sulla strada per Sant’Angelo - Palombara, comprendendo i terreni dell’Immaginella, la tenuta di Greppe con casale e procoio, fino al Quarto dei Tobaldini, lungo via delle Molette, dove è segnalata una piccola costruzione ed un fontanile ben strutturato con selciata intorno e lapide con lo stemma della Casa Peretti.

Fra le figure più indicative di coloro che lavoravano nella Tenuta di Mentana vi era il Fattore, responsabile dell’azienda, il capovaccaro del procoio di Greppe, che provvedeva ai lavori inerenti la cura del bestiame, ed un certo numero di salariati o braccianti.

La vigna del Principe rendeva molto vino nelle buone annate. Sembra, anzi, che la produzione fosse molto cospicua, ma la per la maggior parte il vino era trasportato a Roma, come testimoniano numerosi riferimenti: 11 aprile 1625: "Pagati a Pasquino, vitturale della Mentana, sc. 15,60 moneta che importano la vettura di barili 68 di vino condotti da detto locho alla nostra cantina li 26 febbraio passato” e, "A Pasquino della Mentana, vitturale, sc. 20 per la portatura di some 60, cioè barili 120 dalla Mentana a Roma. Il contratto d’affitto della Tenuta di Mentana, prevedeva la coltura di una certa parte del fondo a grano; ma questa coltivazione era fatta soprattutto per rigenerare il terreno pascolivo e per impedire che inselvatichisse troppo. Il terreno da grano era coltivato "a quarteria”, in altre parole, per un anno vi si seminava il grano e per tre era lasciato a riposo (come venti secoli prima!).

A Mentana l’uso civico della semina era stato consacrato dallo Statuto Orsini, emanato nel 1552, nel libro VI sotto il capitolo "sui raccolti delle terre lavorate ossia seminate” fu stabilita la quota della quarta. In conseguenza, tutti i lavoratori dei quarti erano obbligati a dare la quarta parte dei raccolti come corrisposta al principe.

Il contadino riceveva il terreno (quarto designato), che era ridistribuito ogni anno, a suo completo rischio; doveva immettere nel processo produttivo, oltre che la propria forza lavoro, anche gli strumenti necessari alle normali operazioni di coltivazione ed il principe si limitava a una pura appropriazione del plus valore in quanto possessore del fattore terra, indispensabile alla produzione. Ancora nel Settecento, Mentana si collocava tra i feudi più ricchi della famiglia Borghese che possedevano la quasi totalità dei terreni. Su di una superficie di 3.392 ettari, la quota intestata al principe era di 2.878 ha., in pratica circa l’81,9% dell'intera tenuta. Il modo di restituire il seme avveniva insieme con quello del versamento della corrisposta e delle decime del parroco, subito dopo la trebbiatura.

La condizione feudale dell’agricoltura nell'antico regime, attraverso l’imposizione della decima sulle produzioni agricole soggette a tale tributo, il grave problema costituito dalla manomorta ecclesiastica, cioè la sottrazione dei beni immobili alla libera circolazione del mercato, ed infine gli usi e le consuetudini secolari perpetuati in tale campo finiscono per mortificare l’agricoltura non soltanto del nostro territorio ma di tutta la Campagna Romana condannandola per tutto l’antico regime ad un sostanziale immobilismo economico.

Ritratto del Principe Michele Peretti Pietro Facchetti Galleria Corsini5. Michele Peretti: ritratto di famiglia

Michele Peretti9 fu un vero principe rinascimentale. Erede universale della nonna Camilla, sorella di Sisto V, in quanto unico maschio della famiglia a non essere destinato alla carriera ecclesiastica, e il solo quindi a poter proseguire la stirpe, a soli otto anni, nel 1585, fu nominato dal prozio Sisto V capitano generale della guardia pontificia e governatore di Borgo. A undici anni fu fatto sposare con la ricchissima ereditiera Margherita della Somaglia, figlia unica del conte Alfonso di Milano. Per compensare la mancanza di blasone gli furono comprati in successione, il marchesato di Incisa, poi la contea di Calusio e infine, per 84.000 scudi, il titolo di principe di Venafro. Il suo cognome che gli deriva dall’essere figlio di Damasceno, fu sostituito con quello più importante di Peretti, facendolo educare in casa di Lucrezia Salviati, moglie di Latino Orsini.

L’ascesa sociale e la fortuna economica degli eredi di Sisto V, fu costruita dall’abile Camilla Peretti, che provvide con oculati investimenti, con un’accorta politica matrimoniale, con l’accaparramento di cappelli cardinalizi e prestigiosi incarichi di Curia e con l’acquisto di una serie di titoli nobiliari al prospero futuro dei nipoti. La sorte delle due nipoti non fu meno invidiabile: benché ancora bambine, furono sposate - la prima Flavia, a Virginio Orsini, duca di Bracciano; la seconda, Orsina, a Marc’Antonio Colonna, nipote del vincitore di Lepanto. Le doppie nozze furono celebrate contemporaneamente, il 20 marzo 1589, e le due sorelle ricevettero 100.000 scudi di dote ciascuna.

Francesco, figlio di Michele principe di Venafro, e di Margherita della Somaglia, non era destinato alla vita ecclesiastica. Avrebbe ereditato dal padre i titoli nobiliari e il prestigio di cui godevano i Peretti a Roma e dalla madre, nativa di Lodi, una notevole ricchezza. La sua venuta al mondo, però fu molto sospirata.

Donna Margherita, dopo alcuni anni di matrimonio senza figli, disperava di poter mettere al mondo un erede, così si raccomandò alle preghiere di un frate laico dei minori cappuccini, Fra Michele da Celleno, considerato un santo.

Il miracolo avvenne. Nel 1600 nacque un maschio: Francesco. Il principino, crescendo, era non solo l’orgoglio, ma anche la speranza di tutta la famiglia, compreso lo zio cardinale, Alessandro, poiché proprio in Francesco si sarebbe perpetuato il nome dei Peretti.

Così, giovanissimo, fu fidanzato alla nobile ragazza Anna Maria Cesi. Ma due avvenimenti cambiarono totalmente il destino del giovane principe. La morte della madre, prima, e il successivo matrimonio del padre con la sua promessa sposa Anna Maria Cesi.

L’incontro con Anna Maria Cesi, dovette essere per il principe Michele il classico colpo di fulmine, se poco dopo essere rimasto vedovo il principe Miche decise di sposarla. Michele Peretti e la dolce figlia del duca Cesi non furono altro che strumenti per attuare il disegno della Divina Provvidenza. La vocazione ecclesiastica di Francesco aveva bisogno di questa prova. La dinastia fondata da Sisto V si è chiusa con un sacerdote passato alla storia come uomo intelligente e colto, pio e generosissimo verso i poveri, ottimo vescovo ed eccellente Cardinale.

La fede di Matrimonio tra il principe Michele ed Anna Maria avvenne il 13 novembre 1613. Tra i presenti figurano il fratello dello sposo Cardinale Alessandro Montalto e il loro congiunto Andrea Peretti. Quet’ultimo ebbe la porpora da Clemente VIII Aldobrandini che lo nominò cardinale il 5 giugno 1596 per riguardo al Cardinale Montalto.

Anna Maria apparteneva al ramo dei Cesi duchi di Cori. Era cugina del famoso Federico fondatore dell’Accademia dei Lincei.

Il matrimonio tra il principe di Venafro e la duchessina di Cori fu celebrato in modo grandioso nel febbraio 1614 al Palazzo della Cancelleria. Ce ne parla proprio Federico Cesi in una lettera a Galileo Galilei datata 1° marzo 1614. “Mi soddisfece il Cicognini, poiché, trovandomi alla veglia o festino scenico nelle nozze della Principessa Peretti, mia cugina, vidi che fra l’altri pianeti haveva con molto garbo, posti i Medici in choro intorno a Giove. Piacque lo spettacolo a tutti, e la novità inserita al suo luogo...”.

Una delle occupazioni preferite dal principe Michele Peretti era la caccia: nei suoi registri contabili sono annotate le spese per il mantenimento di una muta di cani, trattati con ogni cura, fino a calzarli di scarpette di pelle per evitarne il danneggiamento alle zampe, quando erano impiegati negli impervi terreni di caccia.
Fu proprio al rientro a Roma da uno dei suoi soggiorni di caccia nella tenuta di Torre in Pietra che Michele Peretti morì improvvisamente il 3 febbraio 1631, all’età di 54 anni, probabilmente a causa delle peste.

Il patrimonio di Michele Peretti, morto ab intestato, passò interamente al figlio, l’abate Francesco, creato, in seguito, cardinale nel 1642.

Anche Francesco, come suo padre, amava trascorrere lunghi periodi nei suoi casali di campagna, occupato in cacce e cavalcate, passione di famiglia e moda del tempo: il ricchissimo inventario dei suoi beni, redatto dopo la sua morte nel 1655, testimonia questa sua predilezione.

Francesco Peretti, nel suo testamento del 2 maggio 1655 lasciò Mentana all’abate Paolo Savelli, figlio di sua sorella Maria Felice, il quale in quello stesso anno ebbe la facoltà di vendere il feudo di Mentana al principe Marcantonio Borghese.

Il 1° febbraio 1642 Francesco Peretti di Montalto, ultimo discendente di Sisto V, divenne cardinale titolare della chiesa di San Giorolamo degli Illirici a Porto di Ripetta. Egli conservò il titolo fino alla sua morte avvenuta il 3 maggio 1653. Nove mesi dopo, il 7 febbraio 1656, passava a miglior vita la sorella Maria Felice che aveva sposato Bernardino Savelli del ramo dell’antica famiglia romana. L’altra loro sorella, che si era fatta monaca domenicana, decedeva nel convento di Santa Caterina a Magnanapoli nel 1668. Francesco, Maria e Camilla chiudono per sempre la storia di una famiglia, quella dei Peretti di Montalto, fondata dal Cardinale Felice, poi papa Sisto V, che neanche in cento anni doveva lasciare un’impronta così marcata nella città di Roma. Il cognome Peretti Montalto fu poi assunto dai parenti acquisiti, prima i Savelli, poi i Cesarini.

6. Il principe e il suo feudo

stemma peretti somagliaDocumenti dell’epoca c’informano che la Principessa Anna Maria Cesi - Peretti, dimorava lunghi periodi dell’anno nel suo palazzo di Mentana che si connotava come il palazzo nobiliare di campagna: in genere vi si trasferivano ai primi caldi per restarvi fino ad autunno inoltrato.

Anche il principe Michele vi soggiornava regolarmente con il suo seguito e numerosi ospiti. Un pagamento di 31 scudi, è registrato nell’ottobre 1624 a favore di tale Agostino, cocchiere, “per nolo di tante carrozze date per seguito nostro per li Casali di Lamentana questo mese 10 ottobre 1624”.

Una lettera del 1624 della principessa Maria Aldobrandi, che possedeva una vigna in Mentana, testimonia nella riserva del principe la presenza di cinghiali che avevano invaso e danneggiato la sua proprietà.

Lo spirito di magnanimità del principe Michele Peretti c’è attestato da una concessione fatta a beneficio della popolazione di Mentana: “12 ottobre 1626, pagati 300 scudi che havevamo promesso per la nuova strada per Monte Rotondo alla Mentana, senza però che sia gravata detta Comunità”. Con Michele Peretti si pongono le premesse per la trasformazione in raffinata residenza dell’antico castello di Mentana, posto in posizione centrale nell’abitato a causa dello sviluppo del borgo medievale tutto attorno ad esso e dunque diventato assai inadatto alla difesa: la cinta muraria e il suo collegamento alla vecchia con la mirabile strada coperta, un passaggio su due livelli di notevole ampiezza e solidità destinato ad assicurare il passaggio in sicurezza e riservatezza di uomini, carrozze e cavalli, inaugurano un processo di ridefinizione del castrum medievale come abitazione signorile.

Superate ormai le esigenze difensive, il complesso si trasforma così in palazzo, con un secondo ingresso sulla piazza, attenuando le caratteristiche dell’originaria struttura fortificata. Simbolo del prestigio nobiliare della città, il palazzo signorile di Mentana, è l’espressione di un’eredità di potenza tradotta in un segno che è proprio del linguaggio dell’architettura del palazzo voluta proprio dai Peretti servendosi, secondo alcuni storici locali, dell’opera di Giandomenico Fontana: la facciata domina la scena paesana e la composizione planimetrica si affaccia su Piazza San Nicola e anzi concorre a formare il perimetro della piazza stessa sulla quale incombe l’imponente prospetto del palazzo baronale con la sua sontuosa balconata posta su maestosi mensoloni e il suo grandioso portale d’ingresso preceduto da una scalinata.

I lavori, il cui avvio non è dato sapere, si svolsero con fasi alterne di interruzione e di ripresa fino agli anni Venti del 1600, quando la direzione dell’opera fu affidata all’architetto Francesco Peperelli sotto la cui sorveglianza, i lavori furono ultimati. Attraverso l’esame dei pagamenti registrati nei libri contabili del principe Peretti risulta, infatti, la fornitura di un grande quantitativo di legname relativo a questo periodo. Il 7 dicembre 1619 fu versata all’architetto Peperelli la somma 30 scudi, da lui stesso anticipata, per “Tavoloni da comprarsi a Tivoli per Lamentana” e ancora, qualche mese più tardi, il 17 febbraio 1620, fu registrato il pagamento di “scudi 55 moneta per conto di scudi 85 per il costo, vittura e dogana di Tavoloni cento mandati a Lamentana”.

Furono questi, con tutta probabilità, gli anni degli ultimi lavori di ristrutturazione del palazzo, epoca in cui era forse già stata completata la ristrutturazione di alcune stanze nobili poiché già dal 1624 il principe Peretti vi soggiornava regolarmente con il suo seguito e numerosi ospiti.

Tuttavia, ancora nel maggio del 1625 sono registrati ulteriori pagamenti per lavori effettuati a Mentana, sempre sotto la direzione di Francesco Peperelli. "21 maggio 1625. Dati a Bastiano falegname a Lamentana sc. 5,18 quale saldo di cento manifatture fatte in detto locho e per quanto possa pretendere al dì d’hoggi come per fede del Peperelli ar-chitetto” e più oltre, sotto la stessa data, "Dati a M.ro Pietro Giorgetti muratore a Lamentana sc. 118,09 a saldo di un conto di sc. 568,56 di lavori fatti in detto locho come per fede del Peperelli”.

Si tratta in ogni modo di insufficienti e laconiche registrazioni di spesa da cui è quasi impossibile ricavarne gli interventi anche se, l’ingente quantità di spese e di materiali e, soprattutto, la presenza dell’architetto Peperelli, ci sembra che lascino ben pochi dubbi circa il probabile riferimento ai lavori di ristrutturazione del palazzo di Mentana.

terenzio terenzi assuntaIl conventino fu costruito in tempi rapidissimi, fra il 1608 ed il 1610. All’inizio, l’erezione di un nuovo convento a Mentana fu avversata dalla Provincia Romana Francescana, sia per la presenza del vicino convento di Monterotondo, sia a causa dell’aria malsana del luogo. Tuttavia, cedendo alle pressanti richieste del Cardinale di Montalto, nel 1608 furono inviati i Padri per scegliere il luogo che fu individuato in una vigna del Principe dove, non senza qualche perplessità dei religiosi, fu piantata la croce secondo il costume francescano ed in poco più di un anno fu terminata la fabbrica.

La sua consacrazione avvenne solennemente il 14 novembre 1610 e fu officiata, richiamando una grande partecipazione di popolo, dal Vescovo dì Sulmona, Mons. Cesare Fedeli, il quale oltre l’altar maggiore, benedisse anche le due cappelle laterali, una dedicata a San Francesco, l’altra a San Michele ed entrambe ornate di statue. Inoltre sotto l’altare maggiore furono collocate le reliquie del corpo di San Felice I, Papa e Martire, fatto venire da Roma, probabilmente dal Cimitero di San Callisto, dallo stesso principe Peretti.

Questi avvenimenti sono ricordati da due epigrafi marmoree collocate a destra e sopra alla porta, all’interno della chiesa, menzionate anche da Sperandio, il quale verosimilmente ebbe modo di visitare la chiesa al seguito dell’allora Vescovo di Sabina Card. Andrea Corsini e che noi citiamo sopperendo alla strana mancanza di fonti dirette in nostro possesso, pur rimarcando che l’autore commette, ripreso da gran parte della storiografia locale, un errore di trascrizione nel riportare la data di fondazione del Conventino come avvenuta nell’anno 1590, anziché nel 1610.

 

 

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1) G. TOMASSETTI: “La campagna romana antica, medioevale e moderna" vol. IV a cura di Chiumenti L.; Bilancia F. ed olschki. Firenze 1979e
2) Cfr. § 1 n. 4.
3) G. PESCOSOLIDO: “La nobiltà meridionale nell’età dei Gallio" (pag. 69-81), in "Il ducato di Alvito nell’età dei Gallio”, tomo I, Castellili 1997, pag. 75.
4) ASR, Archivio Sforza Cesarini, b. AA. N. 66, ff. 58 ss.
5) «De venditio Casalis sive Tenuta nuncupata Torre Lupara seu Sancta Margherita “..." ad effectum ut dicti. Ill.mi D.ni Ursini dictam Tenutam venderent Ill.mo et Ex.mo D.no Marchioni Michaele Peretto». Cfr. Atti Mainardi, giugno 1594.
6) S. PASSIGLI: “La pianta dell'architetto Francesco Peperelli (1618): una fonte per la topografia della regione romana" in Miscellanea della Società Romana di Storia patria, XXXI, Roma 1989, passim
7) I registri contabili di Michele Peretti sono conservati presso l’Archivio Storico Capitolino: Archivio della Famiglia Cardelli, Appendice nn. 30, 39-40, 45-50, 53 (in seguito AC).
8) Archivio Storico Capitolino, AC. Ap-pendice n. 40.
9) Per le notizie relative a Michele Peretti v. S. GIORDANO: “Sisto V, papa" in Enciclopedia dei papi, Roma, Ist. dell’Enciclopedia Italiana, 2000, III, pagg. 202-222; J. DO- LEMEAU: “Vita economica e sociale di Roma nel Cinquecento" , Firenze 1979; E. RUSSO DE CARO "Gli ultimi discendenti di Sisto V e i frati “... Diverse lettere di D. Anna Maria Cesi al Principe Michele Peretti suo sposo...".

Feudi di Celano

Celano Castello FoNo Chfono Castello Piccolomini di Celano Abruzzo Italia1591, 9 apr. Nel testo di vendita dei feudi di Celano (1591) da Donna Costanza moglie di Alfonso Piccollomini a Donna Camilla Peretti ritroviamo la seguente suddivisione: terra Celani, baroniam Piscina sitam in eadem provinciam, consistentem in subscriptis alis terris et locis videlicet; Piscina, civitatem marsicana dirutam, Aschi, Venere, Cuculli, Lecce, Gioia, Bisegna, Santo Sebastiano, Ortucchio et Sperone per un importo di 307.500 ducati, atto stipulato presso il notaio Battista Pacifici di Napoli.

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Il Castello della Rocca residenza del Cardinal Montalto?

busto massi mauri

In molti1 hanno sostenuto giustamente che l'attuale palazzo Massimauri di Montalto fu acquistato nella seconda metà del XVI secolo da D. Camilla Peretti sorella dell'allora cardinal Montalto, per farne la degna residenza in patria di un Principe di Santa Chiesa..

Il 21 luglio 1576, infatti, donna Camilla Peretti acquistò "quattro case nella zona da basso vicino alla chiesa di San Pietro". Insieme a queste proprietà contemporaneamente ne acquistò altre che l' 11 ottobre 1578 furono donate alla comunità di Montalto perché fossero adibirte a scuola. Come primo acconto spediì da Roma al suo agente in Montalto, il sig. Giacomo Ottavi, la somma di 600 fiorini. Le abitazioni sono presumibilmente di epoca quattrocentesca2

Alla morte di Sisto V il palazzo passò alla famiglia Morelli e nel 1614 fu acquistato da Andrea Silvestri.

Noi però ipotizziamo che alcune di esse fossero nelle immediate adiacenze e pertinenze del Castello della Rocca. Anzi, ipotizziamo che lo stesso Palazzo Massimauri facesse un tutt'uno col Castello della Rocca e che l'acquisto della famiglia Peretti riguardasse l'intero Castello della rocca. e ciò a seguito degli importanti acquisti effettuati a Montalto e a Roma in quel periodo, grazie alla cospicua disponibilità di danaro derivante dall'eredità ottenuta a Napoli quand'era rettore nel convento di San Lorenzo Maggiore ³.

Il 21 luglio 1576 donna Camilla Peretti, sorella del Cardinal Montalto, acquista "quattro case nella zona da basso vicino alla chiesa di San Pietro" per farne una degna residenza cardinalizia. Insieme a queste proprietà contemporaneamente ne acquista altre che l' 11 ottobre 1578 verranno donate alla comunità di Montalto per adibirle a scuola. Come primo acconto spedisce da Roma al suo agente in Montalto, il sig. Giacomo Ottavi, la somma di 600 fiorini. Le abitazioni sono presumibilmente di epoca quattrocentesca.

Successivamente all'acquisto, seguono i lavori per la realizzazione di un unico palazzo.
Il palazzo, nuova abitazione della famiglia Peretti, resta tale fino alla morte di Sisto V. A testimonianza della possidenza di detta famiglia in una sala con soffitto a cassettoni in legno v'è scolpito lo stemma araldico dei Peretti e in una nicchia del cortile esterno d'ingresso è posto  il busto di Sisto V. 
Alla morte di Sisto V il palazzo passò alla famiglia Morelli e nel 1614 fu acquistato da Andrea Silvestri.

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Note

1 http://www.beniculturali.marche.it/Ricerca/tabid/41/ids/70594/Palazzo-Massimauri/Default.aspx

2 V. CATANI, La Chiesa Truentoa, op. cit. p._______

10castelloNel 1790 ca. il palazzo fu acquistato da Francesco Saverio Massi che in seguito entro' in possesso dell'eredita' del dott. Mauri Gianbattista a condizione che ne assumesse il cognome. Da allora l'edificio e' proprieta' della famiglia Massimauri. Nel 1867 il p.t. fu attrezzato a pestrino per l'olio, magazzino e stalla.
Dai primi del Novecento fino al 1960 il p.2 fu utilizzato come caserma dei carabinieri.
Nel 1989 fu completamente rifatto il tetto in legno. I lavori furono seguiti dal geometra Ciotti Giorgio di Montalto.

 

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A testimonianza della possidenza di detta famiglia in una sala con soffitto a cassettoni in legno v'è scolpito lo stemma araldico dei Peretti e in una nicchia del cortile esterno d'ingresso è posto  il busto di Sisto V. 
Alla morte di Sisto V il palazzo passò alla famiglia Morelli e nel 1614 fu acquistato da Andrea Silvestri.

Nel 1790 ca. il palazzo fu acquistato da Francesco Saverio Massi che in seguito entro' in possesso dell'eredita' del dott. Mauri Gianbattista a condizione che ne assumesse il cognome. Da allora l'edificio e' proprieta' della famiglia Massimauri. Nel 1867 il p.t. fu attrezzato a pestrino per l'olio, magazzino e stalla.
Dai primi del Novecento fino al 1960 il p.2 fu utilizzato come caserma dei carabinieri.
Nel 1989 fu completamente rifatto il tetto in legno. I lavori furono seguiti dal geometra Ciotti Giorgio di Montalto.

 Palazzo Massi Mauri (casa dei Peretti)

Appunti manoscritti del canonico Francesco Pistolesi (vedi Archeopiceno n. 0, Anno I Settembre-Novembre 1992, p. 14)

L'odierno palazzo Massi Mauri non appartenne propriamente come si è creduto ai Peretti, ma alla famiglia Morelli affini e Sisto V. Il confronto fatto fra gli stemmi ivi esistenti (un moro) e quello sepolcrale di Mons. Lelio Morelli a Capaccio (Salerno) tolgono ogni dubbio. Detto palazzo fu venduto dai Morelli ad Andrea Silvestri nel 1614 (Antonelli Antonio, pag. 128) e passò poi alla famiglia Massi.

1619 - 15 sett. "Actum in domo Franceschini sita in qu(?) platea iuxta domum illmi Andree Silvestri ab uno latere et ab aliis vicis publicis" (Testamento di Imperia Silvestri atti di Ludovico Vittorucci)

On. Signore.

L'interesse della S.V. On. mostrato per la casa di Sisto V e le gentili espressioni a mio riguardo contenute nella cartolina diretta al collega Can. Massi Mauri, mi inducono, come di dovere, a ringraziarla sentitamente e a darle qualche notizia in proposito.
Più volte mi ero domandato quale fosse stata la casa di Sisto V e di Donna Camilla a Montalto. Il canonico Massi Mauri mostrava nel suo antico palazzo un soffitto con degli stemmi. Era un indizio e niente più.
Nel 1867 venne lo storico De Hübner e nessuno gli seppe dir nulla:nel 1890, centenario della morte di Sisto V, il Can. Massi Mauri eresse un semibusto al Pontefice nella parte boreale del suo palazzo senza peraltro accennare che quella era stata la dimora del Pontefice. Io poi nelle ricerche d'archivio, avevo trovato in molti atti notarili che la casa del Cardinal Montalto stava in "platea communitatis".
Ostacolo per me insormontabile: il palazzo Massi, pensavo io, non si trova in piazza Umberto I dove sta il Comune. Di fronte a questo fatto qualunque tradizione a favore di quel palazzo (da uno sconosciuto) non mi avrebbe mai fatto pensare.
Pochi mesi fa però scoprii che il Comune si trovava nel '500 e '600 nell'odierno Teatro della Rocca confinante col palazzo (dove l'Ecc. Vostra è certamente stato). Domandando ho saputo che lo spazio vicino al teatro e davanti alla casa Massi era chiamato anticamente Piazzetta come ho avuto confermato da una diffida del 1601. Ogni dubbio è stato tolto: quella era sicuramente la casa che io cercavo.
In quel palazzo erano stati Camilla e fra Felice: Actum in domo Camillae in platea communitatis iuxta sua notissima latera. Actum in domo Illmi e R.mi Dñi in platea Communis iuxte sua etc. Gli stemmi hanno tutto il loro valore. Nella speranza che Ella vorrà gradire queste notizie e affrettando col desiderio la sua venuta a Montalto per avere l'onore di vederla e conoscerla personalmente non avendo potuto altre volte ne qui ne a Roma, mi confermo della S.V.
Aggiungo, e questo ancora non l'ho fatto al Can. Massi Mauri, che non era questa la casa paterna e più umile dei Peretti essendo stata acquistata nel 1566 con un contratto di permuta perché trovo che in quest'anno il Vescovo Felice Peretti dà tre fiorini a Mattei, l'antico proprietario. "Pro ultima solutione additionis domus suae commutatae cum Dominibus Camillae et Mariae Felici." 

 

TARGA

Montalto delle Marche - Castello della Rocca, Porta Marina, epigrafe dedicatoria a Sisto V P.O.M.
CHRISTUS / SUSCITAT / ASTREAE / TEMPORA
(CRISTO / PROMUOVE / IL TEMPO / DELLA GIUSTIZIA),
RELLIGIO / EXTOLLIT / SIXTI / IUSTITIAM
(LA FEDE / INNALZA / LA GIUSTIZIA / DI SISTO),
PICENUM / SUSCIPIT / VIRTUTIS / PRAEMIA
IL PICENO / RICEVE / LA RICOMPENSA / DELLA VIRTÙ),
QUILIBET / AUDIT / LEGIS / DONA
(CHIUNQUE / RICONOSCE / I BENEFICI / DELLA LEGGE),
ORBIS / AMAT / OLYMPI / VIAM
(IL MONDO / AMA / LA VIA / DEL CIELO). — a Montalto delle Marche.

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